Dante: l’uomo politico

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Uomo pubblico di municipio e di partito

Libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta. Purgatorio I, 70-72

Dante oltre a essere letterato insigne e uomo di pensiero è stato anche uomo attivo e militante, uomo politico di parte e, in certi momenti della sua esistenza, quest’ultimo aspetto è stato preponderante per l’attenzione che manifestò verso le vicende del Comune di Firenze. Come molti suoi concittadini ha mostrato un forte impegno civile, una particolare passione per la vita politica e una disponibilità all’attività pubblica partecipando ai numerosi eventi bellici e alle vicende politiche della città.

Sulla sua attività politica, nutrita di una forte carica ideologica, che lo accompagnerà per tutta la vita, e sugli incarichi ufficiali che egli ricoprì a Firenze, dal 1295 sino all’esilio, vi sono pochi documenti ufficiali. Tuttavia gli avvenimenti politici dell’epoca in cui visse, hanno avuto una forte influenza sulla sua opera letteraria oltre che sulla sua vita. Dante, infatti, ha avuto un ruolo importante, tutt’altro che secondario nella vita politica di Firenze di quegli anni.

Le esperienze politiche allontanarono il poeta dai fervori adolescenziali, dagli affetti giovanili e lo portarono a vivere eventi duri e complessi della vita pubblica. Il carattere forte e il rifiuto dei compromessi gli hanno procurato inimicizie potenti e durature. Ma la forza di Dante è nella sua libertà e nella sua fede; libertà di esprimere le sue idee e di rimanervi fedele a prezzo dell’esilio e della sconfitta.

Le convinzioni  politiche e l’impegno civile nella turbolenta Firenze dell’epoca, caratterizzata da lacerazioni tra due schieramenti rivali, portarono Dante ad appoggiare, insieme all’amico Guido Cavalcanti, la fazione dei Bianchi, legati alla famiglia dei Cerchi e contrapposti ai Neri, legati invece alla famiglia dei Donati. Le due fazioni contrapposte erano espressione del partito dei Guelfi che aveva il dominio sulla città.

Nella sua opera letteraria si trovano diverse tracce dell’appartenenza guelfa e poco della sua militanza bianca. La prova cruciale della sua adesione alla parte bianca sta soprattutto nella condanna subita nel 1302.

Dante, spirito libero che ebbe una netta visione umana e civile nella sua carriera politica, giunse nel 1300 a occupare la carriera di priore delle arti e cercò di contrastare la politica espansionistica del papa Bonifacio VIII della famiglia Caetani (pontefice dal 1294 al 1303, che ambiva a prendere il controllo sulla Toscana).

Come “savio” per le sue doti riconosciute di poeta e di filosofo, e come uomo politico ha fatto parte del Consiglio dei Cento, organo di governo cittadino che aveva come scopo principale la gestione delle finanze, e del Consiglio dei Trentasei, un consiglio ristretto o speciale del popolo nominato direttamente dai priori.

Nelle sedute dei vari Consigli a cui Dante partecipò si pronunciava da “esperto” su questioni di natura procedurale e si espresse a favore di provvedimenti contro quelle persone, soprattutto i magnati, che compivano atti di violenza ai detentori di importanti cariche pubbliche. Nella vita cittadina il suo ruolo di «uomo pubblico» ebbe un certo rilievo e incise sui grandi temi che agitavano il dibattito e lo scontro politico del momento tra i diversi ceti sociali  della città.

Per la sua qualità di oratore e la sua riconosciuta abilità di retore, oltre ad essere cooptato nei vari organismi assembleari di governo della città di Firenze e a occupare il seggio più alto nella gerarchia comunale, ebbe prestigiosi e delicati incarichi di ambasciatore in varie città, il più importante dei quali fu quello del 15 ottobre del 1301, a Roma, per convincere il papa del tempo, Bonifacio VIII, a non interferire nella politica interna di Firenze, sua amata città.

Dopo la sconfitta della fazione dei Bianchi, avvenuta il 21 gennaio del 1302, Dante fu condannato per la prima volta a due anni di esilio per baratteria (accusa che indicava la concessione di cariche pubbliche in cambio di denaro, imputazione messa in atto per sbarazzarsi degli avversari politici) e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici; successivamente il 10 marzo dello stesso anno fu di nuovo punito all’esilio perpetuo con relativa condanna a morte («igne comburatur, sic quod moriatur», bruciato sul rogo).

Dante per la sua visione umana e politica pagò di persona le più dure  conseguenze, e la condanna per contumacia del 10 marzo del 1302 (non essendosi presentato a pagare) gli precluse per sempre la possibilità di tornare al «bello ovile ov’io dormi’ agnello», come ha ricordato con nostalgia nel canto XXV del Paradiso (v.5). Una conseguenza della sentenza fu, oltre alla lontananza dei membri della sua famiglia, la confisca totale dei beni, così che Dante si ritrovò fuori della sua città/patria e in condizioni economiche particolarmente difficili.

Durante il lungo periodo trascorso in un tormentato esilio in varie città d’Italia (Arezzo, Forlì, Verona, Ravenna…), Dante maturò un convincimento politico molto più radicale contro il papato fino ad avvicinarsi alle tesi della fazione ghibellina.

Tuttavia per il suo rigore morale, per la fierezza sorretta da un forte carattere, per l’esemplarità del suo comportamento e la convinzione di essere esente da colpe oggettive, non accettò di ritornare a Firenze.

 


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