La Legge della parola

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La legge della parola. Radici bibliche della psicanalisi           di Massimo Recalcati  (Prima parte)

La (Parola di Dio è un albero di vita che da tutte le parti ti porge frutti benedetti. (Efrem il Siro)

 Nella chiara ed essenziale Introduzione del libro La legge della parola. Radici bibliche della psicanalisi  (Einaudi editore), lo studioso psicanalista Massimo Recalcati spiega la chiave interpretativa del saggio e afferma che «la credenza in Dio non è né il presupposto, né il centro della sua riflessione».

 L’incontro dell’autore con la Bibbia è avvenuto, fin dalle prime letture giovanili, ponendosi delle domande: «Esiste una Legge che non sia al servizio della morte, del castigo e della punizione, ma della vita? Esiste una Legge che eccede il piano sanzionatorio del giudizio morale? Una Legge in grado di animare la forza generativa del desiderio?». La Legge della parola impone all’uomo la rinuncia a farsi Dio, come condizione per umanizzare la sua esistenza, che favorisce il farsi umano dell’umano.

Leggendo attentamente e interpretando con acume alcune parti della Bibbia, lo studioso di psicanalisi non intende psicanalizzare il testo biblico, ma leggere la Scrittura, in particolare alcune scene della Torah, per comprendere meglio la psicanalisi.

Per l’autore il Dio biblico è un Dio che rivolge incessantemente la sua parola all’uomo e la psicanalisi è una pratica, istituita sul fondamento della parola, che non può essere ridotta a uno strumento di comunicazione, poiché tende ad assumere la forma di una Legge che coincide con la Legge di Dio, con la Legge della parola che si impernia sull’esperienza dell’impossibile di voler essere come Dio e acquistarne integralmente la potenza. La grande follia dell’uomo è la tentazione di essere Dio che, in psicanalisi, viene precisata come la Legge simbolica della castrazione che può risultare fondativa della esperienza della libertà.

Recalcati inizia l’analisi del testo biblico dal primo libro della Genesi, dalla creazione del mondo che ha origine dal desiderio di Dio, dal nulla delle tenebre, dall’abisso informe, quando la «terra era vacua e vuota». Il Dio biblico vive nella relazione con il mondo che ha voluto generare. E la potenza dell’atto divino della Creazione ex nihilo coincide con quella della sua Parola perché il Dio della Bibbia è un Dio che parla, che si realizza soltanto nel potere generativo della parola, e quindi nella relazione.

L’universo, come prova inconfutabile dell’amore di Dio per l’uomo, come dono gratuito creato dal Dio biblico, è il luogo della relazione e della differenza che brulica di vita e si manifesta nella sua irriducibile molteplicità. È la luce della Parola di Dio che illumina il caos originario, che dà forma all’essere estraendolo dalle tenebre. Il  potere di Dio è quello di fare esistere ciò che lui stesso ha creato attraverso il potere della Parola. Il nome, che fa esistere le forme della vita sottraendole all’indistinto e all’innominato, manifesta pienamente il gesto creatore di Dio.

La centralità del potere della Parola, nel racconto della Creazione, costituisce una delle radici proprie della psicanalisi, perché la parola analitica, strettamente collegata con la rivelazione della verità, non si limita a nominare le cose, ma le fa esistere in modo nuovo. La parola, secondo Freud, è come una luce che illumina in modo inedito le cose e le fa esistere ogni volta in modo nuovo. Sono le parole che fanno esistere le cose, è la potenza della parola ad illuminare il mondo.

L’atto della Creazione è l’atto di alcuni tagli, il primo dei quali disgiunge la creatura  dal suo Creatore, dandole il compito di aver cura del creato, di custodirlo, mentre con il secondo taglio opera una separazione nell’umano (Dio toglie dal corpo di Adamo la sua costola) per vedere incrinata l’illusione umana di poter essere una totalità autosufficiente.

L’uomo è nato per essere in relazione all’Altro, con una donna, Eva, che è il simbolo dell’eteros, dell’alterità che dà origine al desiderio umano che ricerca la parte perduta nell’Altro, senza però poterla mai trovare.

La narrazione biblica si apre con due trasgressioni: la prima che avviene nel giardino terrestre riguarda l’interdizione (e quindi il furto) di accesso all’albero della conoscenza del bene e del male; la seconda riguarda il gesto fratricida di Caino. È proprio la nascita della Legge a determinare il desiderio umano di trasgredire la Legge, a commettere azioni criminose.

Tra il testo biblico (con il desiderio di essere tutto, di volere essere simile a Dio da parte dell’umano, di rigettare la sua finitudine) e la psicanalisi (con il desiderio incestuoso, del godimento del “tutto”, rovinoso perla vita) vi è una notevole convergenza. L’errore dell’uomo è quello di voler essere come Dio, di opporsi a riconoscere la Legge dell’impossibile, che sola può rendere umano l’uomo.

Secondo la Torah è dal gesto efferato e distruttivo di Caino,  uccisore del fratello,  che ha inizio la storia dell’’uomo. Nel racconto biblico l’amore per il prossimo viene dopo l’esperienza originaria dell’odio. Il testo biblico mostra che nella violenza, animata dall’odio, si manifesta il carattere perverso e narcisistico del desiderio umano, la sua spinta a distruggere l’Alterità e a voler essere come Dio.

Colpire il “prossimo” viene prima dell’amore per il prossimo. L’odio è una inclinazione primaria dell’umano, è una spinta pulsionale della vita. Uccidere significa sopprimere l’alterità dell’Altro vissuta come limitazione insopportabile della libertà. È l’uomo accecato dall’invidia, con la tentazione della violenza fratricida, a portare il crimine nella storia.

Quando Caino uccide ferocemente il fratello infrange innanzitutto la Legge della parola che è sempre alternativa alla potenza distruttiva della violenza e istituisce il rapporto con l’Altro come fondamento della vita umana. Abele, l’intruso, il rivale, per Caino non è il fratello da amare in quanto, a causa di Abele, Caino non è più l’unico figlio di Eva.

Caino, figlio incestuoso, ferito narcisisticamente, non può sopportare che la sua condizione di figlio unico sia compromessa dall’arrivo di un altro fratello, di Abele. Caino non tollera l’esistenza di Abele, agisce, uccidendolo, per difendere il suo privilegio e la sua immagine di figlio unico. Caino, riconoscendo la propria colpa, corregge il gesto fratricida e ricostruisce una versione nuova della fratellanza e può diventare così padre e “costruttore” della prima città nella storia dell’umanità. (continua).


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