Latina e il suo territorio hanno una storia, una storia antica

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Viaggiando spesso per vari motivi tra Latina e Roma, in treno, è capitato e capita frequentemente anche se involontariamente, dai pendolari che percorrono la linea Napoli-Roma e che casualmente fanno conoscenza tra di loro, sentir dire “io sono napoletano”, “io sono salernitano”, “io sono sezzese”, ecc. ecc. . Ognuna di queste locuzioni indica, ovviamente, il senso di appartenenza ad una città di quel pendolare che la proferisce. Dall’altra parte si sente dire  “io sono di Latina”, “io sono nato a Latina” oppure “io abito a Latina”, (raramente “io sono latinense”),  modi di dire questi che non denotano appieno un senso di appartenenza. E questo dipende dal fatto che molti abitanti di Latina provengono da quasi tutte le regioni d’Italia e soprattutto dai paesi del monti Lepini. E chi è nato a Latina, nella maggior parte dei casi, ha la storia dei suoi genitori o dei suoi nonni radicata in un’altra regione o in un’altra città d’Italia. È opinione diffusa, a proposito, che devono passare ancora molti decenni prima che ogni abitante di Latina possa dire con convinzione e con senso di appartenenza  “Io sono latinense”. Come se ogni abitante di Latina si sentisse menomato rispetto a chi provenga da un’altra città, come Napoli, o Salerno, o Sezze, ecc.. Io sono del parere che con una divulgazione adeguata concernente la conoscenza intima e profonda sia del territorio pontino che della sua storia antica, più che millenaria, ogni cittadino di Latina potrebbe vantarsi di abitarvi e con grande orgoglio potrebbe affermare “Io sono latinense!” In definitiva, ogni abitante acquisirebbe quell’“anima di cittadino” che deriva dal possesso del senso di appartenenza. Basterebbe ritenere che questa città – o meglio il territorio dove essa è sorta -, come comunemente si crede, non ha una storia breve, ma un passato, antico di millenni, risalente addirittura a data anteriore alla fondazione di Roma. A pochi chilometri di distanza dal centro di Latina esistono, infatti, i resti di una città, prima latina e poi volsca, che ha “avuto una grande fioritura nel VII e VI secolo a.C., quando era una città grande e ricca …” (B. Heldring – Satricum- una città del Lazio): la città italica di Satricum risalente al IX secolo a.C..

In località Borgo Le Ferriere si trovano i resti archeologici di questa città, originariamente chiamata Pometia (cfr. Tito Livio, storico romano vissuto tra il 59 a.C. e il 17 d.C.), – da cui è derivato poi il nome del territorio che oggi è chiamato Agro pontino (da Ager pometinus). La scoperta avvenne casualmente prima dell’ultima bonifica della palude pontina (iniziata nel 1924), esattamente il 24 gennaio del 1896 grazie ad un archeologo francese. Satricum, ubicata sul fiume Astura che in quel tempo era navigabile fino al mare,  aveva rapporti commerciali, soprattutto di traffico del vino, con diversi paesi del bacino mediterraneo, Marsiglia, Cartagine, Grecia, Spagna, Egitto, e ciò l’aveva resa grande e opulenta. Questa città, oggi, dovrebbe essere considerata la “Latina antica” o “Latina vetera” con una storia di oltre 2800 anni, perché basava la sua prosperità sullo stesso territorio – il Latium vetus – su cui oggi gravitano gli interessi economici e commerciali della città di Latina moderna. Ciò darebbe ai latinensi un’identità storica peculiare e i loro governanti dovrebbero favorire l’acquisizione di questa convinzione anche per la grande eco nazionale e internazionale non solo economica che ne potrebbe derivare. Basti pensare che Satricum è stata fondata dal popolo italico dei Latini, i quali a loro volta (al di là delle origini mitiche descritte da Tito Livio nella sua opera “Ab urbe condita”) hanno fondato Roma, e la cui lingua – il “latino” – fu diffusa in tutto il mondo e oggi lingue come il francese, lo spagnolo in particolare, il portoghese, il rumeno, il ladino, e soprattutto l’italiano, sono parlate dalla maggior parte dei popoli della Terra. Ciò sta a significare quando grande sia stato l’impulso creativo del Latium vetus e dei Latini alla storia e allo sviluppo della civiltà dell’uomo. Un grande territorio, un grande popolo dunque. E di questo i Latinensi dovrebbero essere orgogliosi. A Satricum vi si trovano i resti del Tempio di Mater Matuta, la dea italica dell’alba e dell’aurora, che è citata dal poeta latino Lucrezio Caro (poeta e filosofo epicureo di Pompei, vissuto nel I sec. a.C.) nel “De rerum natura”: “Così ad un’ora fissa Matuta soffonde con la luce rosea/ dell’aurora le rive dell’etere e spande la luce” , ma ne tratta anche il poeta Vincenzo Monti nel suo poemetto “Feroniade” (1784), scritto nel momento dell’avvio dei lavori di bonifica delle paludi pontine intrapresi dal papa Pio VI: “Tra la ferocia del possente Astura,/ l’opima Mucamite, e l’alta Ulubra,/ e la vetusta Satrico, a cui nulla/ il nume valse della dia Matuta./ E per  te cadde, strepitoso Ufente,/ Pomezia, la più ricca e la più bella”. Il titolo del poemetto deriva dalla ninfa italica Feronia, della quale si trova, ancora oggi, la fonte sull’Appia antica, alle porte di Terracina.

Un interessante convegno “Satricum e il Latium vetus” ormai datato – era il 18 novembre 2011 ad Aprilia -, dove tra i relatori c’era la prof.ssa dr. Marijke Gnade dell’Archeological Centre della Faculty of Umanities, Universiteit Van Amsterdam, archeologa delle culture pre-Romane nell’Italia Centrale nonché direttore del progetto Satricum. In quell’occasione, la professoressa Gnade fece un’esaustiva e brillante disamina dettagliata e particolarmente coinvolgente, partendo dall’inizio dei lavori condotti da un gruppo di archeologi olandesi, nel 1977, attorno al basamento del Tempio di Mater Matuta, già messo alla luce nel 1896 come già detto. Nel basamento del tempio, costruito in tufo, sono stati scoperti dei lastroni levigati, in uno dei quali compare scritta in latino arcaico una dedica a Poplio Valesio (o Publio Valerio), il probabile fondatore dell’antica Repubblica romana, avvenuta intorno al 509 a.C.. Dopo questa data, e quindi dopo la cacciata dei Tarquini da Roma, sembra che ci sia stata un’offensiva dei popoli limitrofi, i Volsci, che ridimensionarono per un certo tempo l’espansione di Roma e forse crearono il loro baricentro politico proprio in Satricum.

Di questa città italica ne parla pure, nel suo romanzo Aurora (Mondadori, 1979), Stanislao Nievo, pronipote di Ippolito. Vi descrive l’aspirazione di una vecchia signora di Firenze la quale, essendo vissuta nell’agro pontino per molti anni, vorrebbe essere sepolta nel vecchio cimitero ubicato presso Satricum dove sorge il tempio di Mater Matuta.

L’8 settembre 2012, presso il castello di borgo Montello di Latina, fu tenuto un altro evento eccezionale sull’antica Satricum, straordinariamente raro per il territorio di Latina e, per questo, singolare ed emozionante. Di fronte ad un folto pubblico attento e interessato fu ricostruita e raccontata la giornata di un abitante della città, un tale di nome Mamarcus, un giovane vissuto tra il 500 e il 490 a.C. a Satricum. Di fronte al tempio di Mater Matuta situato nell’acropoli, infatti, era stata trovata la casa di questo abitante e, attraverso i reperti ivi scoperti, fu possibile ricostruire le sue abitudini e, di conseguenza, quelle degli altri abitanti della città. Il prof. Michelangelo La Rosa, con la collaborazione scientifica della prof.ssa Gnade e con la proiezione di suggestive fotografie, fece esplorare dal pubblico presente i luoghi, gli usi e i costumi del tempo, e conoscere come si svolgeva, attraverso la vita di Mamarcus,  la giornata di un abitante qualsiasi, dall’alba fino alla sera, differenziando le varie fasi della giornata.

Questo avvenimento dimostra che a Latina con poche risorse materiali ma con grandi qualità intellettuali e umane, e anche desiderio di sfondare il muro dell’inerzia e del torpore mentale si possa fare Cultura di alto livello, quella Cultura di cui la città è ancora carente.

A pochi chilometri di distanza da Latina, inoltre, si snoda la “Regina viarum”, la via Appia, che collegava Roma a Brindisi e quindi all’Oriente, e che fu costruita da Appio Claudio nel 312 a.C., quindi circa 2300 anni fa (e non ieri né ottanta anni orsono!), quando ancora la palude non esisteva. Nei pressi del borgo di Tor Tre Ponti – nome che deriva da Tripontium per il vicinissimo ponte, un tempo a tre arcate, e per una torre costruita in epoca medievale; vi si trovano due cippi, uno intestato all’imperatore Nerva (96-98 d.C.) a cavallo del fiume Ninfa e un altro all’imperatore Costantino (306-337 d.C.), –  esiste un ponte romano di epoca traianea (rifatto nel 98 a.C.) sulle acque del fiume Ninfa. Su questo ponte ancora oggi sfrecciano auto e mezzi pesanti! Più avanti, sempre sull’Appia, presso il Forum Appii (oggi Borgo Faiti), c’è un altro ponte romano sul fiume Cavata ad una sola arcata. Il poeta latino Orazio (65 – 8 a.C), durante il suo viaggio verso Brindisi nella primavera del 37 a.C. (libro I, quinta satira), racconta che “Uscito dalla grande Roma… arrivai al Foro Appio brulicante di marinai e di bettolieri imbroglioni” (Egressum magna … Roma… Forum Appii differtum nautis cauponibus atque malignis). Lo cita anche Luca, compagno di Paolo di Tarso condotto a Roma per essere giustiziato, nei suoi “Atti degli Apostoli”: «E così arrivammo a Roma. E da lì i fratelli che avevano sentito delle nostre vicissitudini, ci vennero incontro fino al Foro Appio e alle Tre Taverne. Quando li vide, Paolo ringraziò Dio e … prese coraggio» (At 28,14-15). Dal Forum Appii, 43 miglia a sud di Roma, iniziava la palude pontina formatasi nel II secolo a.C., e si dipartiva un canale, lungo 19 miglia, formato dalle acque del fiume Ninfa. Sia Orazio, nella citata “quinta satira”, che Strabone (geografo greco vissuto a cavallo tra il I secolo a.C e il I secolo d.C.) nel suo primo libro “Geografia”, e anche Plinio il vecchio (23 – 79 d. C.) nella “Naturalis Historia”, riferiscono che il canale (l’attuale Linea Pio)  fiancheggiava la via Appia, e per proseguire il viaggio fino a Terracina si utilizzavano delle imbarcazioni trainate da muli che si muovevano sulla strada.

Alle porte di Terracina, sempre rimanendo sulla “Regina viarum” si trova la Fonte, dove sorgeva un tempio dedicato alla dea Feronia (oggi ubicata dentro la proprietà del Mulino Cipolla), nei cui pressi confluiscono i fiumi Ufente e Amaseno. Del tempio non c’è più traccia se non quella di un tratto di mura che sorreggeva la via Appia. Della fonte ne parla ancora il poeta Orazio, sempre nella “quinta satira”: “O Feronia, con la tua acqua ci laviamo la bocca e le mani. Allora dopo colazione avanziamo per tre miglia e giungiamo sotto Ansure (Terracina) posta sopra a sassi largamente bianchi”(… ora manusque tua lavimus Feronia lympha. milia tum pransi tria repimus atque subimus inpositum saxis late candentibus Anxur)”. Feronia era la dea delle acque e della fertilità, protettrice dei boschi e delle messi, adorata dalle genti italiche. Della dea Feronia ne parla anche Vincenzo Monti nella ricordata “Feroniade”: “I lunghi affanni ed il perduto regno/ di Feronia dirò, diva latina/ che del suo nome fe beata un giorno/ di Saturno la terra./ … Là dove imposto ai biancheggianti sassi/ sulla circea marina Anxuro pende/ e nebulosa il piede aspro gli bagna/ la pomezia palude a cui fan lunga/ le montagne lepine ombra e corona,/ una ninfa già fu delle propinque/ selve leggiadra abitatrice; ed era/ il suo nome Feronia”.

Francesco Giuliano

 


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Giuliano Francesco, siciliano d’origine ma latinense d’adozione, ha una laurea magistrale in Chimica conseguita all’Università di Catania dopo la maturità classica presso il Liceo Gorgia di Lentini. Già docente di Chimica e Tecnologie Chimiche negli istituti statali, Supervisore di tirocinio e docente a contratto di Didattica della chimica presso la SSIS dell’Università RomaTre, cogliendo i “difetti” della scuola italiana, si fa fautore della Terza cultura, movimento internazionale che tende ad unificare la cultura umanistica con quella scientifica. È autore di diversi romanzi: I sassi di Kasmenai (Ed. Il foglio,2008), Come fumo nell’aria (Prospettiva ed.,2010), Il cercatore di tramonti (Ed. Il foglio,2011), L’intrepido alchimista (romanzo storico - Sensoinverso ed.,2014), Sulle ali dell’immaginazione (NarrativAracne, 2016, per il quale ottiene il Premio Internazionale Magna Grecia 2017), La ricerca (NarrativAracne – ContempoRagni,2018), Sul sentiero dell’origano selvatico (NarrativAracne – Ragno Riflesso, 2020). È anche autore di libri di poesie: M’accorsi d’amarti (2014), Quando bellezza m’appare (2015), Ragione e Sentimento (2016), Voglio lasciare traccia (2017), Tra albori e crepuscoli (2018), Parlar vorrei con te (2019), Migra il pensiero mio (2020), selezionati ed editi tutti dalla Libreria Editrice Urso. Pubblica recensioni di film e articoli scientifici in riviste cartacee CnS-La Chimica nella Scuola (SCI), in la Chimica e l’Industria (SCI) e in Scienze e Ricerche (A. I. L.). Membro del Comitato Scientifico del Primo Premio Nazionale di Editoria Universitaria, è anche componente della Giuria di Sala del Premio Nazionale di Divulgazione Scientifica 2018 e 2019/Giacarlo Dosi. Ha ricevuto il Premio Internazionale Magna Grecia 2017 (Letteratura scientifica) per il romanzo Sulle ali dell’immaginazione, Aracne – NarrativAracne (2016).