L’esilio di Dante

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Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale.                                 (Paradiso XVII, 55-60)

         Il biblista e compositore Marco Frisina con estrema chiarezza e capacità di sintesi ha scritto: «La vita di Dante fu un’esistenza spezzata in cui gli ideali furono improvvisamente sconvolti e gli affetti negati. Sradicato dalla propria famiglia, dagli amici, dal suo mondo vagò esule e solo per l’Italia fino agli ultimi anni della sua vita, quando poté trovare sollievo e pace prima della sua morte prematura».

         Dalle accorate testimonianze dello stesso poeta, sappiamo quanto la vita, trascorsa in esilio, fosse raminga ed incerta, quanto amara fosse l’umiliazione del chiedere accoglienza per proteggere se stesso e i figli. Durante il periodo dell’esilio ebbe modo di allargare il suo orizzonte ideale e maturare il suo pensiero politico estendendolo oltre i ristretti limiti delle contese cittadine e raggiungendo una visione più ampia di ordine e di pace universale.                                                                                                                                                                  L’esilio di Dante fa venire in mente i versi struggenti degli ebrei esuli dalla loro patria che, nel celeberrimo salmo 137, evocano la struggente nostalgia per Gerusalemme: «Lungo i fiumi laggiù in Babilonia/sedevamo in pianto/in ricordo di Sion./Ai salici, là in quella terra/appendemmo mute le cetre». Grande è stata la nostalgia di Firenze per l’esule Dante e amara la condizione di non poter tornare, da uomo libero, nella città natale.

         Quando Dante fu bandito da Firenze partecipò ai primi tentativi fatti dai Bianchi e dai Ghibellini per rientrare nella città con la forza. Nel 1302 partecipò, come presidente, al convegno dei capi degli esuli organizzato per stringere alleanze con i ghibellini Ubaldini per dichiarare guerra contro i Neri. L’impresa fallì, non ebbe successo per inettitudine dei capi e per i tradimenti dei suoi compagni d’esilio, «compagnia malvagia e scempia», ricordati nel canto XVII del Paradiso (v.62).                                                                                                                           Incominciò così il doloroso vagabondaggio che lo condusse in pochi anni «per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando» come «legno sanza velo e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che evapora la dolorosa povertade». Dante coltivò sempre la speranza di un provvedimento di clemenza del Comune di Firenze che non venne mai. Indirizzò ai governanti e al popolo della città epistole oggi perdute, ma ricordate dal biografo quattrocentesco Leonardo Bruni nella Vita di Dante.

         Nel 1304 Dante, come si evince dai versi 70 e seguenti del canto XVII del Paradiso, trovò il primo rifugio presso la corte scaligera di Verona, città nella quale regnava Bartolomeo della Scala. Dopo la sua morte, il poeta passò a Padova negli stessi anni in cui Giotto affrescava la Cappella degli Scrovegni e dove forse dipinse il volto di Dante.

         In questo periodo compose due famosi trattati De vulgari eloquentia e il Convivio che testimoniano la sua vasta dottrina, l’alta coscienza morale e i nobili propositi culturali ed artistici.

         Nel 1306 Dante soggiornò a Sarzana in Lunigiana dove, in qualità di procuratore di Franceschino Malaspina di Mulazzo, firmò un patto di pace con il vescovo di Luni. Dopo la calda accoglienza dei Malaspina andò a Lucca (1308), dove la gentildonna Gentucca gli alleviò il soggiorno (Purgatorio XXIV, 37-45). Nel frattempo si preparavano eventi che dovevano lasciare nel cuore e nell’opera di Dante un’eco profonda.

         Nel 1310 dopo la discesa in Italia dell’imperatore, Arrigo VII di Lussemburgo, nell’animo di Dante rinacque la speranza del suo rientro in patria e la possibilità che l’autorità imperiale potesse smorzare le discordie interne fra le frazioni italiane. In questa occasione scrisse una lettera ai principi d’Italia per esortarli ad accogliere, riverenti, lo stesso imperatore come restauratore della pace nella giustizia e nella libertà. Ma alcuni signori e comuni guelfi, con a capo Firenze, respinsero questo invito e Dante dal Casentino scrisse una violenta lettera ai fiorentini “scelleratissimi” e subito dopo un’altra lettera indirizzata all’imperatore per incitarlo a muovere senza indugio contro la sua città.

Dopo questa veemente presa di posizione, Firenze lo escluse dal richiamo offerto ai molti, dei Bianchi, cittadini esiliati. In seguito alla morte dell’imperatore (1313) le speranze dell’esule di rientrare in patria svanirono definitivamente. Dante si recò a Verona, dopo soggiornò a lungo, presso la corte di Cangrande  della Scala, di cui esaltò il valore e la generosità (Paradiso, canto XVII, 76 e seguenti).

         Nel maggio del 1315 la citta di Firenze, sotto la minaccia di Uguccione della Faggiuola, concesse un’ampia amnistia nella quale era incluso anche Dante a condizione che gli esuli riammessi pagassero una multa. Il poeta però non accettò e dopo la sconfitta dei fiorentini per opera di Uguccione, gli fu commutata la pena capitale nel confino, purché si presentasse a dare garanzia. Dante non si presentò e il vicario del re, Roberto d’Angiò, eletto capitano generale della città, pose al bando il poeta e i suoi figli innocenti e ordinò che fossero uccisi con decapitazione qualora fossero fatti prigionieri.

         Dante passò, insieme ai figli, gli ultimi anni della vita a Ravenna grazie all’invito di Guido Novello da Polenta, signore della città. Quest’ultimo periodo fu caratterizzato da una certa tranquillità, circondato da affetto e stima da parte di ammiratori e discepoli. Dopo il  ritorno di una ambasceria a Venezia per conto del suo signore, a Ravenna morì nella notte del 13 settembre del 1321, all’età di 56 anni.

Fu sepolto con grandi onori e la sua tomba si trova nella chiesa di S. Pier Maggior, poi detta di S. Francesco. L’esilio e la morte impedirono a Guido Novello di fargli erigere un degno mausoleo. Questa volontà fu successivamente realizzata nel 1483 da Bernardo Bembo, padre di Pietro, pretore della Repubblica veneta, essendo Ravenna passata sotto i veneziani. Il sepolcro di Dante fu ornato con un bassorilievo, raffigurante il poeta intento a leggere un libro aperto su un leggio, dallo scultore Pietro Lombardo.

         Nel tormentato esilio una profonda esigenza di rigore, un’esemplarità del comportamento e una fierezza, sorretta da forte tensione morale, impedirono a Dante di accettare un ritorno a Firenze a condizioni giudicate umilianti, lesive del suo orgoglio e della sua dignità di uomo e di cittadino convinto di essere esente da colpe oggettive.

Ha scritto l’accademico e critico letterario, Natalino Sapegno, «l’esilio ha allargato l’orizzonte della sua mente oltre i confini della vita cittadinesca, e dalla coscienza dell’ingiustizia personale sofferta, l’ha condotto alla considerazione di tutta la storia contemporanea travagliata dalle cupidigie e dalle usurpazioni, travolta dai vizi e dall’anarchia».


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