Dalle finestre della sua casa di allora, tra il ghetto e il Campidoglio, risuonava il traffico romano. Quando il frastuono si faceva intollerabile, Ennio Morricone si sedeva al pianoforte, e iniziava a comporre, a cercare i suoi componimenti. Non aveva perso l’accento di Trastevere, dov’era nato novantuno anni fa. Ma era un romano sui generis: cortese, disponibile, semplice.

«Sono cattolico, votavo Dc, ma ho sempre considerato Gesù il primo comunista – diceva -.

«Il cinema italiano era tutto di sinistra. L’unico film “di destra” fu quello che feci con Maurizio Liverani, il critico di Paese Sera: si chiamava “Lo sai cosa faceva Stalin alle donne?”, era una satira anticomunista. Non ebbe molto successo. Con Sergio Leone non abbiamo mai parlato di politica.
Il suo sogno è sempre stato reinterpretare l’inno di Mameli. L’aveva realizzato per «Cefalonia», il film per la tv sul massacro della divisione Acqui.

«Un consigliere di Ciampi era venuto a chiedermi un parere sull’inno. Risposi che per noi ha un valore simbolico che riguarda il nostro Risorgimento. E proposi un concorso tra compositori per scriverne uno nuovo; Non se ne fece nulla».

Con Pasolini la collaborazione fu problematica. «Mi chiede la colonna sonora di “Uccellacci e uccellini”. Ho detto no, e lui mi lascia carta bianca; mi domanda però di inserire una citazione di Mozart, un brano del Flauto magico. Non ho capito, ma ho accettato. Poi per “Teorema” mi commissiona musica dodecafonica, purché con una citazione del Requiem di Mozart. Quando ascolta il lavoro, obietta: “Ma non c’è il Requiem!”. “Ascolta con attenzione, c’è un clarinetto che ne accenna il motivo”. Capii che era una questione scaramantica; in ogni suo film doveva esserci qualche nota classica. Non a caso, in “Accattone” c’è un frammento di Bach».
Le parole però non potevano restituire l’emozione di sentire Morricone provare le sue nuove musiche al pianoforte di casa. Quando non poté proprio più sopportare il frastuono, traslocò, lontano dal centro. Ma la sua Roma, quella di un tempo, gli mancava.

Era legatissimo alla famiglia: i figli Giovanni, Marco, Alessandra, Andrea; e la moglie Maria: «Ci siamo conosciuti a Roma nell’Anno Santo, il 1950. Lei è nata in Sicilia ma è venuta nella capitale a tre anni. Era amica di mia sorella Adriana. A me piacque subito moltissimo. Ma a lei io piacevo meno. Poi Maria ebbe un incidente, con la macchina di suo papà. Un attimo di distrazione, e andò a sbattere. La ingessarono dal collo alla vita, come si faceva allora. Soffriva moltissimo. Io le sono rimasto vicino. E così, goccia dopo goccia, l’ho fatta innamorare. Perché nell’amore come nell’arte la perseveranza è tutto. Non so se esistano il colpo di fulmine, o l’intuizione soprannaturale. So che esistono la tenuta, la coerenza, la serietà, la durata. E, certo, la fedeltà. Fatto sta che ci fidanzammo. E ci sposammo il 13 ottobre 1956».

Come si fa a stare settant’anni con la stessa donna? Ora non si usa più. Morricone sorrideva: «La domanda la deve fare a mia moglie; è stata bravissima lei a sopportare me. Vivere con uno che fa il mio mestiere non è facile. Attenzione militare. Orari rigorosi. Giornate intere senza vedere nessuno. Sono un tipo duro, innanzitutto con me stesso e di conseguenza con chi mi sta attorno. Altrimenti i risultati non arrivano. Il successo viene certo dal talento ma più ancora dal lavoro, dall’esperienza e, ripeto, dalla fedeltà: alla propria arte come alla propria donna.

Quando uno come Lui ci lascia non se ne va mai del tutto. In moltissime canzoni italiane c’è un tocco insospettabile di Morricone. Le due «A» iniziali di «Abbronzatissima», ad esempio. O la dissonanza nell’attacco al pianoforte di «Sapore di mare». Compose anche musica contemporanea, tra cui un «Urlo» più straziante di quello di Munch. Era insomma un personaggio più complesso di quel che sembrava. Ma fino all’ultimo restò cortese e disponibile. Come tutti i veri — e rari — Grandi.

Alessandra Trotta  ( Giornalista Scrittrice )


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