La Deposizione e La Trasfigurazione di Raffaello

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L’arte vive di invenzione e di immaginazione, canta di cose belle e impossibili, di cose meravigliose  e mai accadute, di cose che non sono e non  dovrebbero essere.                                           Oscar Wilde  

Il Trasporto del Cristo morto (la Deposizione) è un’opera commissionata nel 1507 da Atalanta Baglioni in ricordo del figlio Grifonetto assassinato alla metà di luglio del 1500 durante le faide familiari per il controllo della città. La pala fu trafugata nel 1608 e in gran segreto spedita al pontefice Paolo V, che la donò a suo nipote, il cardinale Scipione Borghese, grande e raffinato collezionista di opere d’arte.

Il tema del dipinto permette a Raffaello di cimentarsi in una composizione a più figure dal tono drammatico. La tensione dinamica dei corpi e la contorsione di alcuni personaggi, dall’anatomia solida e muscolosa manifestano l‘influenza di Michelangelo che ha sull’urbinate                                                                                                                                                 Il dipinto (a olio su tavola) sensazionale e di forte impatto emotivo, caratterizzato da una patetica bellezza e da una struggente pietà, celebra il dolore della madre per la separazione del proprio figlio in una scena dinamica e concitata, in cui ogni personaggio raffigurato partecipa con personale condivisione alla tragedia del trasporto di Cristo esanime al sepolcro. Attorno alla Madonna, svenuta per l’immenso dolore per la perdita del figlio, Raffaello raggruppò un gruppo di pie donne che la sostenevano. In uno dei personaggi che trasportano il Cristo su un lenzuolo, si è voluto riconoscere, nel giovane portatore di profilo, proprio l’effige di Grifonetto.

La Deposizione, attraverso la geniale struttura compositiva, anticipa nella bellezza e nell’armonia le opere della maturità di Raffaello espressa nel periodo romano. L’originalità e la grandezza di questa opera, collocata a Roma nella Galleria Borghese, si possono riscontrare sulla rappresentazione di due diverse masse di figure scaglionate nella parte sinistra in moto obliquo e in un gioco di contrapposti, mentre nella parte destra le figure sono rappresentate verticalmente. Sullo sfondo, oltre le montagne in lontananza, sono raffigurate su una collina tre croci e un bellissimo paesaggio naturale con un albero centrale.                                                                                                                                                                                                           La Trasfigurazione del Signore sul Monte Tabor,  commissionata tra il 1516-1517 dal cardinale Giulio de’ Medici (futuro papa Clemente VII) per la cattedrale di Narbona, dove si trovava la sua sede vescovile, è l’ultima opera (rimasta incompiuta in alcune parti marginali) di Raffaello conservata nella Pinacoteca Vaticana ed è ritenuta un vero e proprio testamento spirituale.

Il tema di questa grande pala d’altare rielaborato in sesso narrativo,  descritto dagli evangelisti Luca, Marco e Matteo, si riferisce al momento in cui Gesù manifestò la sua natura divina ai discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni.                                                                                                                                          La tavola è interamente giocata sui bruschi passaggi dalla luce all’ombra e viceversa, che modellano i volumi e dividono lo spazio in due zone nettamente distinte. La scena fortemente drammatica nei due momenti narrativi è sviluppata, infatti, dall’artista di Urbino in due piani sovrapposti, con caratteristiche cromatiche e compositive completamente diverse: in quello superiore è raffigurata la Trasfigurazione di Cristo sul monte Tabor, mentre in quello inferiore è rappresentata la guarigione di un giovane indemoniato sorretto da un padre premuroso.

Il dipinto assume nella parte in alto, più statica e luminosa nei colori, la classica «forma chiusa», “simmetrica, in virtù della posizione centrale del Cristo con le due figure laterali dei profeti Mosè ed Elia librati nell’aria, mentre la parte in basso, più dinamica, caratterizzata da colori scuri, si contraddistingue per la «forma aperta», “asimmetrica” rappresentata da una miriade di figure dai gesti concitati.                                                                                                                                                            Il Cristo vestito «di colore di neve», che ascende gloriosamente in cielo, è ritratto con le braccia alzate e il suo volto alzato e splendente è illuminato da un chiarore abbagliante che acceca i tre discepoli sottostanti (Pietro, Giacomo e Giovanni) e i due santi martiri di sinistra, Giusto e Pastore, patroni della cattedrale di Narbona, testimoni della Trasfigurazione.                                                                                                                                Nella parte inferiore della tavola è rappresentata la scena della guarigione dell’ossesso, episodio tratto dalla vita di Gesù. Il ragazzo seminudo con la faccia stralunata, che si agita in preda alle convulsioni, rappresenta pittoricamente il paradosso estetico che il “brutto” può essere ritratto con bellezza.                                                                                                                          Quando Raffaello morì (il 6 aprile del 1520 di Venerdì Santo, lo stesso giorno in cui nacque) la Trasfigurazione era quasi ultimata e Giorgio Vasari scrisse: «Gli misero alla morte al capo nella sala, ove lavorava, la tavola della Trasfigurazione che aveva finito per il cardinale de’ Medici, la quale opera nel vedere il corpo morto e quella viva, faceva scoppiare l’anima di dolore a ognuno che quivi guardava».

La descrizione vasariana contribuì a creare intorno a questa opera di Raffaello, basata sulla capacità di rappresentare l’intero universo del visibile e del pensabile, un’aura di spiritualità così forte che diventò modello ripetuto e fonte d’ispirazione per altri artisti e in seguito, fu ammirata e imitata dai manieristi e dai pittori dell’età barocca.


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