“Nella quarta settimana del suo soggiorno al Lido, Gustav von Aschenbach…..gli pareva che,mentre si andava verso il colmo della stagione,la clientela dall’albergo diminuisse invece di aumentare…Poi un giorno,dal parrucchiere…..colse a volo una parola che gli diede da pensare….<Lei rimane signore; non ha paura del male….> <Del male?>. Il chiacchierone ammutolì…finse di non aver udito la domanda. [poi] dichiarò di non sapere nulla…. Ma mentre prendeva il tè,seduto…dalla parte ombreggiata della piazza [San Marco],fiutò improvvisamente nell’aria un odore speciale…un odore dolciastro,medicinale,che evocava miseria,ferite e dubbia pulizia. Lo analizzò e lo riconobbe….lasciò la piazza dalla parte opposta alla basilica. Nelle viuzze l’odore s’accentuava. Alle cantonate erano affissi avvisi stampati che mettevano paternamente in guardia la popolazione,per via di certe malattie gastro-intestinali che erano da prevedersi con un tempo simile, a non cibarsi di ostriche e di telline, e a guardarsi anche dall’acqua dei canali. Era chiaro che il tono rassicurante del manifesto nascondeva il peggio. Gruppi silenziosi sostavano sui ponti e nei campielli, e il forestiero si mescolò a loro annusando preoccupato” (T. Mann, La morte a Venezia). La descrizione scarna (da dispaccio) ed essenziale che Mann fa di una Venezia infestata dall’incipiente colera è stata splendidamente tradotta per lo schermo da Visconti nel suo ben noto film fotografando una città spettrale, inanimata e nemica, avvolta in un clima di desolazione altro che mortuario. Inceppando solo nel titolo (Morte a Venezia), a mio avviso riduttivo proprio nell’intrinseco senso inteso dall’autore: l’eliminazione dell’articolo (Der tod in Venedig) sminuisce lo sgomento generalizzando una morte che non è soltanto fisica. Come quella che avvertiamo nei tempi duri e scuri che stiamo vivendo, che ci prospettano città deserte,assolutamente devitalizzate e “ammortizzate”,ovviamente insolite come poteva esserlo anche la Venezia del racconto. Dove si subodora la morte che aleggia meschina e vigliacca, lenta, progressiva e aggressiva. Con il paradossale vantaggio che obbliga a pentirsi o a “confessarsi”: recuperare valori perduti,dissipati o bestemmiati quali il vedersi dentro (in senso interiore e spaziale), il “tornare dentro” ossia rientrare in quei canoni o dimensioni umane miseramente disgregati dalla frenesia di giovani e non di vivere totalmente in esterni. Bighellonando tra Pup (specie i giovani) oramai prescrittivi, apericena (giovani e non), mode gastro-comunicative (tutti), segno di una socialità fittizia: ai miei tempi c’era il “Tè e simpatia” o “Tè per due”! Oggi,nella e dalla gran parte, lo stare insieme è concepito come “orgia di gruppo” e non già come una conversazione continuamente interrotta: per essere ripresa sul filo di una trama non sfilacciata dal tarlo nuove modalità e varie ritualità dei tempi moderni, “magnifiche e progressive” (scriveva ironico e sentenzioso Leopardi!), dai cellulari devastanti, selfie (mai provato!) e strumenti virali equivalenti. Mode, insidie o minacce di questi maledetti tempi moderni che, al dunque, ti lasciano nella m….. Sì, lo so, passatista, troglodita, antenato preistorico, mi sta bene tutto! Quel che non accetto è che siamo arrivati a un punto di non ritorno in cui anche leggere semplicemente un libro, ascoltare musica “sacra” (ci siamo capiti!); stupirsi, non entrare nei pub (i giovani), non imbarcarsi in viaggi favolosi (oramai d’obbligo, guai a rinunciarvi!), starsene in casa o in luoghi aperti “secondo natura” suona come un delitto, una regressione, un rincoglionimento. Felice di commetterlo(il delitto) e di esserlo (rincoglionito)! Il virus? Maledetto,certamente, forse necessario se l’effetto collaterale è quello di una sorta di “igiene” delle idiozie, malformazioni e deformazioni. Purtroppo ad alto scotto.(gimaul)


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