A proposito del “Reddito di cittadinanza” una breve disamina storica sulla diatriba ricchezza/povertà

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Qualche giorno fa un politico italiano, in un programma di approfondimento televisivo sul tema “reddito di cittadinanza”, parlando di “povertà” ha citato, del poeta greco antico Esiodo, vissuto nel VIII -VII secolo a. C., un verso del poema Ἔργα καὶ Ἡμέραι (Le opere e I giorni):

«Non insultare mai la miseria che gli uomini strugge,
che rode i cuori: anch’essa, la mandano i Numi immortali
»1.

Allora mi ricordai di quanto sia ancora attuale il pensiero di molti scrittori e filosofi greci e romani antichi, studiati ai tempi del Liceo, tra cui Esiodo che, figlio di un contadino e lui stesso contadino, nel poema citato decantava il lavoro che conferisce dignità:

«Nessun lavoro è vergogna: poltrire è vergogna. Lavora,
e presto arricchirai, sarai segno d’invidia al poltrone;
e son della ricchezza compagni il buon nome e gli onori»1.

Nell’altro poema Θεογονία (Teogonia) il poeta con questi versi osannava la nascita del dio  della ricchezza, Pluto, nel solco tre volte scassato:

«Dèmetra, generò, somma Dea, con l’eroe Giasone,

nel pingue suol di Creta, nel solco tre volte scassato,

il buon Pluto, che sopra la Terra ed il Pelago immenso,

va dappertutto; e chi trova, chi può su lui metter le mani,

subito fa che ricco divenga, e gli accorda fortuna»2.

Pluto era la divinità cieca che, grazie al lavoro, otteneva la ricchezza. Usando il mito di Esiodo, circa tre secoli dopo, il commediografo greco Aristofane scrisse la commedia Pluto, dove, con lo stile arguto e satirico che gli era proprio, metteva a confronto la distribuzione iniqua della ricchezza con un’utopica ricchezza universale. Quest’ultima avrebbe avuto conseguentemente effetti negativi rispetto ad una diseguale distribuzione tra gli uomini della ricchezza, da cui è generato il motore principale delle azioni umane. Se il dio Pluto avesse riacquistato la vista e distribuito la ricchezza ugualmente fra tutti, gli uomini non avrebbero esercitato più né arti né mestieri. Infatti, «Nessuno farebbe più il fabbro, il carpentiere, il sarto, il tornitore, il calzolaio, il muratore, il lavandaio, il conciatore. Nessuno lavorerebbe più la terra con l’aratro, né raccoglierebbe i frutti di Dèmetra, quando fosse possibile vivere oziosamente, infischiandosene di tutto»3.

Aristofane, allora, nella commedia, a Pluto contrappone Penìa, la dea della povertà, l’essere più spaventoso che c’è al mondo, che è parola maledetta, fantasma che girovaga, perché la povertà a sua volta porta come doni «… bambini affamati, vecchie vocianti. Eserciti di pidocchi, zanzare, pulci, che ci ronzano attorno alla testa e ci svegliano dicendo: “Alzati, vai a far la fame!” E invece di un mantello, uno straccio; invece di un letto, un giaciglio di giunchi pieno di cimici che ti tengono sveglio; invece di un tappeto, una stuoia marcita; invece di un cuscino un sasso sotto la testa. Mangiare non pane, ma gambi di malva; non focacce, ma foglie di ravanello. Per sedile, un otre sfondato, per madia la doga di una botte scassata»3.

Penìa è dunque l’altra faccia della medaglia, differente dalla mendicità: perché la povertà è in una posizione mediana tra la ricchezza e la mendicità. «La mendicità è vivere senza niente; il povero vive risparmiando e lavorando, senza il superfluo, ma non gli manca il necessario. Il mendico non ha i mezzi per colmare il suo stato di deprivazione».3 Il mendico è quello che oggi comunemente viene chiamato clochard, un senza tetto. Penìa, tuttavia, osserva che è vero che il denaro è il motore delle azioni degli uomini, ma fa notare che se tutti diventassero ricchi dalla società umana scomparirebbero il bisogno e quindi il lavoro. Allora Penìa propone, in alternativa, che il motore del mondo si potrebbe avere se fosse distribuita ugualmente non la ricchezza ma la povertà. Gli uomini “ugualmente ricchi” conseguentemente sarebbero indotti al disfacimento della società: ognuno sarebbe costretto a fare interamente da sé il lavoro che di norma è diviso fra i membri della società in una sorta di gerarchia originaria. Gli uomini ”ugualmente poveri” concorrerebbero a formare invece una società basata sulle relazioni e sulla  laboriosità. Non sarebbe vergogna ammettere di essere poveri, sarebbe vergogna non fare nulla per uscire dallo stato di povertà. Penía sarebbe davvero adatta ad essere materia di distribuzione ugualitaria in quanto intrinsecamente orientata alla moderazione? Ci sono stati e continuano ad esserci nel mondo tentativi in questo senso – nei Paesi comunisti in particolare – dove, tuttavia, è accaduto che i politici si sono arricchiti producendo immediatamente iniquità, e anche disapprovazione sociale la quale però è messa a tacere con la repressione.

Dopo circa cinque secoli, prendendo spunto da Aristofane, lo scrittore romano Apuleio, nell’Apologia, a difesa di Penìa scrisse che La povertà è sempre stata di casa con la filosofia: è onesta, moderata, padrona di poco, desiderosa di approvazione, è un bene sicuro rispetto alle ricchezze; non si preoccupa mai delle apparenze, è di modi semplici, benevola quando dà consigli, non istiga mai alcuno alla superbia, non riduce mai alcuno al male per la sua sfrenatezza, mai rende bestiali con la sua tirannia, non vuole, né può, tutti i piaceri del ventre e del sesso. La povertà … fu presso i Greci giusta in Aristide, buona in Omero, valorosa in Epaminonda. Ancora oggi la povertà ha posto fin dalle origini il fondamento dell’impero romano, e per lui ancor oggi essa offre sacrifici agli dei immortali con un mestolo e una scodella. … Non c’è lode nella ricchezza né colpa nella povertà.4 Grazie alla povertà gli uomini sono spinti a lavorare per ottenere un modus vivendi migliore, mentre da ricchi loro si lasciano andare alle mollezze e alle quisquilie; così sono i politici che, avendo acquisito potere e ricchezza, smarriscono il senso del bene comune e scoprono quello proprio.

Il filologo londinese George Thomson in un suo saggio riporta un frammento scritto del tragediografo greco antico Sofocle, vissuto contemporaneamente ad Aristofane, dove descriveva in pochi versi il dramma umano connesso con il predominio della ricchezza:

«La ricchezza procura agli uomini amici, onori,

e sta vicino al trono dell’eccelsa tirannide.

Non vi è più nessun nemico, davanti alla ricchezza

e chi lo è stato nega di odiare.

La ricchezza si insinua liberamente dove non è lecito

e dove è lecito, mentre l’uomo povero a nessun patto

riesce a conseguire ciò che desidera,

neppure se vi si imbatta.

Chi di corpo è brutto a vedersi e sgraziato a parlare,

il denaro lo rende saggio e di piacevole aspetto.

Solo il ricco è libero di ammalarsi

e di stare sano, e di celarsi ai mali».5

Contemporaneamente il politico Pericle ne L’elogio di Atene, onestamente, riteneva che la ricchezza costituisse un fattore positivo se utilizzata soltanto per il bene della società umana: «Noi amiamo il bello, ma con misura; amiamo la cultura dello spirito, ma senza mollezza. Usiamo la ricchezza più per l’opportunità che offre all’azione che per sciocco vanto di parola, e non il riconoscere la povertà è vergognoso tra noi, ma più vergognoso non adoperarsi per fuggirla».6

Bisognerebbe prendere consiglio, tuttavia, dal pensiero del filosofo Epicuro, vissuto a cavallo tra il IV e III secolo a.C., che sosteneva saggiamente che «Se vivi secondo natura non sarai mai povero, se secondo le opinioni volgari non sarai ricco mai», una opinione utopica in questa nostra valle dove l’Eden non si sa dove sia.

Comunque, al di là di ogni concezione sia drammatica che satirica, sia filosofica che politica, sia realistica che utopica, c’è da dire che, nella storia umana più vicina a noi, ci siano stati dei tentativi non di combattere ma di “nascondere” la povertà, così come ha cercato di fare il predicatore gesuita André Guevarre, che, agli inizi del XVIII secolo, in Francia cercò di ridurre al massimo lo spostamento dei poveri e si prodigò per il loro isolamento negli ospizi e la soppressione della mendicità. Egli, infatti, scrisse che «Il fine, che si propone nello stabilimento d’uno Ospizio pubblico, è di sbandire per sempre la mendicità, e di soccorrere spiritualmente, e temporalmente con economia, con ordine, e con metodo tutti i poveri di una Città, i quali sarebbero forzati a mendicare, se non avessero simile ajuto».7

Ma questa è un’altra storia che non risolverebbe il gravoso problema umano della povertà e della mendicità.

Il problema potrebbe essere affrontato, ma non risolto completamente – il lavoro per tutti con l’avanzare della tecnologia informatica è un’utopia -, tramite strumenti legislativi – si chiamino reddito di inclusione, reddito di cittadinanza, sussidio per i cittadini, ecc – che servono a dare all’indigente ciò di cui necessita. Ovviamente tale sussidio dovrebbe essere assegnato in attesa che le istituzioni conformi al sistema sociale gli procurino il lavoro.

Dunque la citazione iniziale di Esiodo: Non insultare mai la miseria che gli uomini strugge, che rode i cuori … starebbe a significare  che il Potere costituito di uno Stato democratico, come quello italiano, dovrebbe adoperarsi, per non insultare la miseria, di avere cura sempre delle persone bisognose così come sancisce l’art. 3 della Carta costituzionale: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Francesco Giuliano

  1. Le opere e i giorni, trad. Ettore Romagnoli, 1929
  2. Teogonia, trad. Ettore Romagnoli, 1929
  3. Pluto, trad. Paduano, Rizzoli, 1988
  4. Sulla magia e in sua difesa, trad. G. Metri, Edipem, 1973
  5. Mercato e democrazia in Grecia in Da marxismo e società antica, a cura di Mario Vegetti, Feltrinelli, 1981
  6. Tucidide, La guerra del Peloponneso,Mondadori, Milano, 1971
  7. La mendicità sbandita col sovvenimento de’ poveri, Gianfrancesco Mairesse e Giovanni Radix,Torino, 1717


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Giuliano Francesco, siciliano d’origine ma latinense d’adozione, ha una laurea magistrale in Chimica conseguita all’Università di Catania dopo la maturità classica presso il Liceo Gorgia di Lentini. Già docente di Chimica e Tecnologie Chimiche negli istituti statali, Supervisore di tirocinio e docente a contratto di Didattica della chimica presso la SSIS dell’Università RomaTre, cogliendo i “difetti” della scuola italiana, si fa fautore della Terza cultura, movimento internazionale che tende ad unificare la cultura umanistica con quella scientifica. È autore di diversi romanzi: I sassi di Kasmenai (Ed. Il foglio,2008), Come fumo nell’aria (Prospettiva ed.,2010), Il cercatore di tramonti (Ed. Il foglio,2011), L’intrepido alchimista (romanzo storico - Sensoinverso ed.,2014), Sulle ali dell’immaginazione (NarrativAracne, 2016, per il quale ottiene il Premio Internazionale Magna Grecia 2017), La ricerca (NarrativAracne – ContempoRagni,2018), Sul sentiero dell’origano selvatico (NarrativAracne – Ragno Riflesso, 2020). È anche autore di libri di poesie: M’accorsi d’amarti (2014), Quando bellezza m’appare (2015), Ragione e Sentimento (2016), Voglio lasciare traccia (2017), Tra albori e crepuscoli (2018), Parlar vorrei con te (2019), Migra il pensiero mio (2020), selezionati ed editi tutti dalla Libreria Editrice Urso. Pubblica recensioni di film e articoli scientifici in riviste cartacee CnS-La Chimica nella Scuola (SCI), in la Chimica e l’Industria (SCI) e in Scienze e Ricerche (A. I. L.). Membro del Comitato Scientifico del Primo Premio Nazionale di Editoria Universitaria, è anche componente della Giuria di Sala del Premio Nazionale di Divulgazione Scientifica 2018 e 2019/Giacarlo Dosi. Ha ricevuto il Premio Internazionale Magna Grecia 2017 (Letteratura scientifica) per il romanzo Sulle ali dell’immaginazione, Aracne – NarrativAracne (2016).