Quando sino arrivato a Latina da Correggio – nel lontano 1963 – ero abituato come tutti i bambine a giocare a palline e con le figurine Panini dei calciatori. Trovai dei modi di giocare completamente diversi. In Emilia eravamo abituati a divertirci al mare o nei giardini pubblici costruendo accurati circuiti di sabbia per andare avanti con palline di plastica. All’interno foto a colori e cognome dei ciclisti più gettonati in quel momento: Massignan, Balmamion, Gaul, Anquetil, Van Looy, Nencini, Taccone. Vinceva chi arrivava primo al traguardo. A Latina all’Oratorio Salesiano era tutto diverso, si usavano biglie di vetro. Il primo giorno, sotto un eucalipto, rimasi impressionato da una frase: buca-pallina-scrucchi, poi pulizia e mangana quando allungavi il braccio. Chi arrivava in buca poteva tirare di nuovo e cercava di colpire la pallina di un avversario che in tal caso veniva conquistata. Non sono mai diventato un fenomeno, rimpiangevo i giardinetti di Correggio o la sabbia di Riccione. Al Lido di Latina il circuito era dello stesso stampo con la sabbia ma si usavano tappi di bottiglia di bibite gassate. Un grosso colpo per me è avvento con le figurine Panini. Ero abituato a giocare il classico sottomuro sotto i portici. In Agro Pontino era tutta un’altra cosa. Lo “schiaffetto lo imparai subito . Obiettivo dello “schiaffetto” era far capovolgere con un colpo di mano le figurine dell’avversario messe in pila e incurvate per agevolarne il ribaltamento. Per giocarci era necessaria una superficie piana: un tavolo, un muretto, una panchina. Diverse erano le tecniche per lo “schiaffetto”. Tra le più diffuse, oltre al palmo aperto, il pugno chiuso e il battito delle mani. Si vinceva quando il tentativo andava a buon fine e si riusciva a girare tutta la pila. In caso contrario si rendeva all’avversario la posta in gioco, che poteva variare da una a qualche decina di figurine. Una variante dello “schiaffetto” mi incuriosiva. Il gioco risultava lo stesso, ma la sua peculiarità era costituita dal fatto che per girare le figurine non si faceva ricorso a un colpo di mano ma alla potenza del proprio soffio.
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