L’omicidio Moro, quando a Latina scoppio’ la guerra tra i clan per comandare sulla città

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Massimiliano Moro fu ucciso il 25 gennaio del2010, mentre infuriava la faida tra le famiglie rom del territorio. Importante fu il contributo dei collaboratori di giustizia
Era il 25 gennaio 2010 quando a Latina esplose la cosiddetta guerra criminale e, alla luce delle indagini che sta svolgendo la Direzione distrettuale antimafia di Roma sulle famiglie di origine nomade che da tempo gestiscono un’ampia fetta degli affari illeciti nel capoluogo pontino, quella è anche la data in cui i clan Di Silvio e Ciarelli hanno iniziato a prendere la forma di un’associazione per delinquere di stampo mafioso.

Quel giorno subì un agguato e venne ferito gravemente il boss Carmine Ciarelli, detto Porchettone,ffiglio di Antonio Ciarelli, la sera stessa venne ucciso quello che i sinti ritennero subito essere stato il mandante del tentato omicidio, Massimiliano Moro.

Per quest’ultimo delitto, alla luce delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e a una rilettura delle indagini svolte all’epoca, oltre a un riesame di una lunga serie di intercettazioni effettuate in carcere, la squadra mobile notificò un’ordinanza di custodia cautelare in carcere a quattro indagati: Ferdinando Ciarelli, detto Furt, fratello di Carmine, Ferdinando Ciarelli, detto Macù, figlio di Carmine, Andrea Pradissitto, genero di Furt, e Simone Grenga, genero di Luigi Ciarelli e l’unico che era intanto uscito dal carcere dopo le precedenti condanne e si trovava ai domiciliari.

Un’inchiesta in cui è stata ricostruita anche parte della storia recente della malavita di Latina. Moro, con una passione per le modelle, era un esponente storico della mala locale. Negli anni ’90 vi furono una serie di omicidi ed altri episodi criminosi, legati in larga parte a dissidi relativi alla spartizione di bottini milionari dei colpi compiuti dai cosiddetti uomini d’oro, e il pregiudicato era in prima linea. Il 4 novembre 1992, mentre era insieme a Costantino,detto Cha Cha, Di Silvio e a Gianluca Tuma, poi condannati nel processo Don’t touch, gambizzò Mario Zof sul centralissimo corso della Repubblica. Il 22 luglio 1994 venne poi ucciso Raffaele Micillo, proprio per quei contrasti sulle rapine milionarie, e Moro, finito tra i sospettati, si rifugiò in Venezuela, dove attese la sentenza di assoluzione e dove si faceva chiamare Marcello Marino.

Tornò a Latina nel 2005, deciso a prendere in mano il business criminale. Iniziò a reclutare un gruppo di giovani per compiere estorsioni e altri traffici, accumulò armi ed esplosivi. E per mostrare la sua forza iniziò a sparare.

Le dichiarazioni dei pentiti Renato Pugliese, figlio di Cha Cha ed ex uomo di fiducia di Moro, e Agostino Riccardo, hanno infatti permesso agli investigatori di ricostruire fatti di sangue rimasti sinora senza risposta. Ecco dunque che Moro viene ora indicato come l’autore della gambizzazione, il 10 agosto 2006, dello stesso Riccardo, “reo” di aver offeso il nipote, il 15 maggio 2008 della gambizzazione dell’albanese Etmond Collaku e dell’aggressione di Donatella Amistà, il 19 agosto successivo della bomba lanciata nel giardino della villa di Maurizio De Bellis, il 22 agosto della gambizzazione di Roberto Rossi, che gestiva una rivendita di cornetti denominata “Superciccio”, in un agguato in cui rimase ferita anche una cliente dell’attività commerciale, e il 2 dicembre, sempre del 2008, della gambizzazione di un operaio di Aprilia, Roberto Menegoni.

Un’escalation. Fino a decidere di uccidere Carmine Ciarelli e i fratelli di quest’ultimo, Ferdinando e Luigi, prendendosi tutta la piazza e vendicandosi per uno schiaffo ricevuto da “Porchettone” con cui aveva un debito. Pugliese ha riferito agli inquirenti che lo stesso Moro gli aveva chiesto se se la sentisse di ammazzare i Ciarelli mettendo “la dinamite da inizio a fine Pantanaccio, li facciamo saltare per aria e finisce la storia”.

Una strage nel quartiere considerato il feudo della famiglia di origine nomade. Si arriva così alle 7.30 del 25 gennaio 2010 quando, proprio a Pantanaccio, Carmine Ciarelli viene ferito con sette colpi di pistola. Per la Dda il secondo grave fatto di sangue nello scontro tra i sinti e la criminalità locale, preceduto il 9 luglio 2003, dall’uccisione con un’autobomba al lido di Latina di Ferdinando Di Silvio, detto Il Bello, un altro cold case per cui proprio domani al Riesame verranno discussi i ricorsi dell’Antimafia contro gli arresti negati dal gip.

Moro viene subito ritenuto dai Ciarelli e dai Di Silvio mandante dell’agguato, per cui venne arrestato condannato in primo grado e poi assolto quello che era il suo autista, Gianfranco Fiori. La sera stessa, nella sua abitazione in largo Cesti, il pregiudicato è stato quindi ucciso e il giorno dopo è stato assassinato un altro uomo del suo gruppo Fabio Buonamano, omicidio per cui sono stati condannati Giuseppe Di Silvio detto Romolo e Costantino Di Silvio detto Patatone, fratello e figlio di Ferdinando Il Bello. Da quel momento, per gli inquirenti, i clan pontini, legati ai Casamonica, si sarebbero trasformati in mafia.

“L’attentato a Carmine Ciarelli fallì – sottolineano dalla questura di Latina – ma le famiglie Ciarelli e Di Silvio furono in grado di ricondurre presto l’agguato subito allo stesso Massimiliano Moro, il quale, secondo gli affiliati del clan, si era anche macchiato della colpa di essersi sfacciatamente recato all’ospedale dove Carmine Ciarelli era stato ricoverato dopo l’agguato, per ostentare falsamente la propria solidarietà ai familiari del ferito”.

Un delitto “commesso al fine di agevolare l’associazione di stampo mafioso Ciarelli-Di Silvio, costituendo il delitto una chiara azione ritorsiva nei confronti della persona che era ritenuta una dei responsabili dell’agguato subito da Carmine Ciarelli, allo scopo di affermare il proprio potere in odine ai traffici illeciti sul territorio di Latina rispetto ai gruppi criminali antagonisti”.

Moro venne ucciso con due colpi di pistola calibro 9*19, uno alla nuca e l’altro al collo, mentre era in cucina, di spalle, intento a preparare il caffè. Secondo la Dda, a tradirlo fu Pradissitto, che prima faceva parte della sua banda e poi era passato con i Ciarelli, a sparare sarebbe stato Grenga, entrato nell’abitazione di largo Cesti, insieme a Ferdinando Macù, mentre Ferdinando Furt avrebbe fatto da palo, tutti ora arrestati su ordine del gip del Tribunale di Roma, Francesco Patrone. Pugliese, riferendo di confidenze ricevute da Giuseppe Pasquale Di Silvio, ha affermato: “Entrarono Ferdinando Ciarelli, figlio di Carmine, e Simone Grenga, che è stato l’esecutore”.

Ha anche aggiunto che Moro, mentre cadeva a terra, disse: “Non sono stato io, non mi ammazzate”. Ma esploso un secondo colpo Macù avrebbe detto: “Non eri degno di ammazzare  mio padre”


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