Dante e Giotto: i due grandi contemporanei

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Gli artisti sono capaci di tradurre il messaggio divino nel linguaggio delle forme e delle figure, rendendo sensibile il  mondo invisibile.                Paolo VI

Nel Canto XI del Purgatorio, uno dei più belli dell’intera Commedia, Dante incontra, nella balza dei superbi, oltre al celebre miniaturista Oderisi da Gubbio, il concittadino e coetaneo Giotto di Bondone dal Colle, nato a Vespignano, vicino Firenze, nel 1267 e morto nel 1337.

Celeberrima è la terzina con la quale Dante nella seconda cantica presenta il grande artista fiorentino: «Credette Cimabue nella pittura/tener lo campo e ora ha Giotto il grido/sì che la fama di colui è scura» (vv, 94-96).

Nella cultura figurativa del tempo, Giotto con le sue opere pittoriche si confrontò vittoriosamente con Cimabue meritando l’elogio che Dante espresse in questi famosi versi. Nel giudizio critico di Dante è implicito il superamento tecnico della pittura di Giotto su quella di Cimabue, caratterizzata dal colore, dalla massa e dal disegno compositivo e da un più efficace rilievo piscologico e drammatico rispetto a quella del più anziano pittore fiorentino, che, nato nel 1240 circa, era ancora vivo nel 1300.

Giotto, l’artista prediletto dalle corti, in particolare da quella pontificia, e soprattutto dai banchieri e borghesi emergenti, lavorò ad Assisi, a Padova, a Roma e a Firenze dimostrando un interesse sempre più vasto e una tecnica sempre più progredita, quasi ad anticipare certe intuizioni di prospettiva e il senso più incisivo della massa nel colore. Dante con acuto senso critico intuì il progresso tecnico-figurativo dell’arte di Giotto rispetto a quello di Cimabue, ritenuto «arrogante e sdegnoso».

Dante, per dare un giudizio tanto impegnativo su Giotto, certamente conobbe in diversi momenti e luoghi della vita la produzione pittorica dell’artista, suo conterraneo, e le fasi della sua evoluzione stilistica, così da maturare la convinzione che lui, e non altri, nello scenario dell’arte contemporanea aveva raggiunto il grido, la fama.

Il Sommo poeta già a Firenze forse, prima dell’esilio, aveva potuto ammirare opere importanti di Giotto, come il Crocifisso, dipinto collocato nella chiesa di Santa Maria Novella, la Pala di San Giorgio alla Costa, che si trova ora nel Museo diocesano di Firenze, con la Madonna in trono che domina maestosa lo spazio.

Una ipotesi potrebbe essere che il giovane Dante, nei fulgidi mosaici del Battistero di San Giovanni, abbia potuto vedere una prefigurazione di quella che diventerà poi la sua visone dell’oltremondo con il Cristo Giudice, le teorie concentriche della gerarchie degli angeli e il repertorio degli orrori dell’Inferno.

In seguito probabilmente, Dante, durante il suo soggiorno a Roma come membro della delegazione fiorentina per l’incontro con il papa Bonifacio VIII della famiglia Caetani, nell’antica basilica di San Pietro, abbia visto, oltre alla Pigna in bronzo (oggi nei Musei vaticani, anche il mosaico giottesco della Navicella (perduto, ma documentato da copie e disegni) che raffigurava Cristo in atto di salvare san Pietro e gli altri apostoli (e quindi la Chiesa) dai flutti del mare in tempesta.

Dante con  la sua intelligenza speculativa e capacità creativa e con il suo acume sottile intuì, in qualche modo prefigurato, il destino universale della pittura di Giotto, ritenuto un innovatore dell’arte pittorica.

Molti studiosi e commentatori della Divina Commedia hanno avvicinato i due grandi protagonisti della letteratura e dell’arte del XIII secolo che hanno compiuto, negli stessi anni, ciascuno nel proprio settore, cambiamenti ritenuti straordinariamente innovativi.

Ha scritto lo storico dell’arte Antonio Paolucci: «Dante ha preso l’esausto ossificato latino dell’Università e della Chiesa, lo ha macerato nei fermenti vivi dei volgari italiani (il toscano, il lombardo, il veneto) e degli idiomi romanzi (il francese, il provenzale, il catalano) e ha “costruito” la lingua letteraria, che sarà dopo di lui di Petrarca, di Bembo, di Leopardi, del Manzoni. Giotto, per la sua parte, ha assunto, metabolizzato e trasformato la tradizione figurativa paleocristiana e bizantina e l’ha messa a confronto con la conquista dello spazio e del Vero di natura ed emotivo, aprendo così la strada alla pittura italiana dei grandi secoli: Il Masaccio della Cappella Brancacci al Carmine di Firenze, il Piero della Francesca di Arezzo, fino al Raffaello delle Stanze vaticane.

 

 

 

 

 


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