Le vicissitudini dell’etica nella storia dell’Occidente

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L’etica del viandante di Umberto Galimberti                                                          Le vicissitudini dell’etica nella storia dell’Occidente (prima parte)

Come può l’etica impedire alla tecnica che può, di fare ciò che può?                        Emanuele Severino

 Nella prima parte del saggio L’etica del viandante, dal titolo Le vicissitudini dell’etica nella storia dell’Occidente, Umberto Galimberti affronta, dal punto di vista storico-filosofico, la problematica dell’etica greca e del primato dell’agire etico-politico sul fare tecnico. Infatti l’etica ha pensato sé stessa in coincidenza con la politica e si è promossa come etica della responsabilità.

Gli antichi Greci distinguevano la tecnica che presiede l’ordine del fare e l’etica che presiede l’ordine dell’agire distinguendo il bene dal male. Nella cultura greca il sapere tecnico resta subordinato alla saggezza etica che è strettamente legata alla politica, definita da Platone «tecnica regia», capace di governare tutte le tecniche che presiedono le attività che si svolgono nella città. La politica, come attività per la realizzazione del bene comune, serve a a organizzare la vita degli uomini nelle forme dell’etica, dell’agire pratico che, come luogo  della realizzazione umana, sceglie gli scopi in vista di una «vita buona», tendenzialmente “felice”.

La separazione dell’etica dalla politica, inaugurata da sant’Agostino, avviene come effetto della cultura cristiana che rende la «vita buona», funzionale alla «vita eterna, e l’etica si raccoglie nell’interiorità dell’anima e si limita alla correttezza della coscienza.    L’individuo cristiano, non più pensato nel complesso della vita sociale, deve vivere separato nel mondo e poi dal mondo perché è destinato non alla città terrena, ma alla città celeste che si raggiunge con l’amore di Dio. Nel pensiero cristiano morale e politica divaricano perché l’individuo ha come riferimento ultimo, della libertà e uguaglianza degli uomini, la vita ultra terrena.

Nell’età moderna la costruzione dell’etica avviene sul modello della scienza. La pratica scientifica consegna l’etica al mondo del fare e l’etica diventa un problema “tecnico” che si riferisce alla produzione correttamente calcolata di regole, rapporti e istituzioni. In forza del metodo scientifico adottato, la politica diventa tecnica che costruisce un ordine, capace di correggere la natura umana, caratterizzata secondo il filosofo britannico Thomas Hobbes, dall’homo homini lupus.

La costruzione della politica avviene con il trasferimento di tutti i diritti naturali degli individui nelle mani del sovrano assoluto. La risoluzione dei problemi etici e politici è affidata alla scienza sul modello della fisica, il cui sguardo risolve teoria e prassi in un’interpretazione puramente tecnica.

        Con Immanuel Kant l’etica, promossa dal modello scientifico, si fonda sulla pura ragione e si risolve nel perseguire e nel promuovere il Sommo Bene. Il filosofo di Königsberg pone a fondamento della morale universale l’imperativo categorico che impone l’osservanza del dovere per il dovere. A promuovere la legge morale è il recupero dell’etica dell’intenzione custodita nell’interiorità della coscienza. Scrive Kant: «L’uomo è da trattare sempre come un fine e mai come un mezzo».

Nell’età della tecnica, nelle società complesse e tecnologicamente avanzate, il principio kantiano dell’etica è insufficiente perché è limitato a regolare i rapporti tra gli uomini per ridurre i conflitti e garantire la pace. L’etica, che presiede l’agire, non è in grado di regolare la tecnica da cui procede il fare. L’età della tecnica capovolge il rapporto di subordinazione del fare rispetto all’agire, non è più l’agire a individuare gli scopi, ma i risultati conseguiti dal fare tecnico, che richiede competenze e conoscenze specializzate.

Oggi gli effetti ultimi, totalizzanti del fare tecnico sullo stato delle cose e degli uomini, che nascono come risultati di procedure e metodiche avviate, sfuggono a ogni possibile controllo etico. All’agire del singolo e della collettività viene sottratto il fattore della responsabilità a cui hanno fatto riferimento tutte le etiche che si sono affermate nella storia.

All’etica dell’intenzione, inaugurata dal cristianesimo e riproposta nei termini della «pura ragione» da Kant, il sociologo Max Weber ha sostituito l’etica della responsabilità, secondo la quale bisogna rispondere delle conseguenze prevedibili delle proprie azioni. Oggi però la tecnica apre lo scenario dell’imprevedibile in quanto il potere di fare è enormemente maggiore del potere di prevedere e quindi di valutare e di giudicare. Di conseguenza anche l’etica della responsabilità di Weber si rivela inefficace, impotente e naufraga di fronte all’imprevedibilità delle conseguenze delle azioni tecniche. Come si fa a essere responsabili degli effetti ultimi che non si è in grado di prevedere?

Anche per il filosofo Hans Jonas non disponiamo di alcuna etica che sia all’altezza del potere tecnico; l’etica si rivela inadeguata per l’epoca caratterizzata da «Prometeo scatenato» che ha donato la tecnica agli uomini. Jonas propone di conferire alla natura la dignità teleologica, occorre trattare la natura come un fine e non come un mezzo. Pertanto è necessario che la collettività controlli il fare tecnico uscendo dall’orizzonte antropocentrico che da tempo ha oltrepassato.                                                                                              

Nell’età della tecnica occorre superare il presupposto antropocentrico: non più il potere dell’uomo sulla natura, ma il potere della tecnica sull’uomo e sulla natura. La tecnica ormai si muove al di fuori del rapporto uomo natura. Oggi ci si trova di fronte all’impotenza dell’etica e all’autonomia del potere tecnico, che né l’uomo né la natura possono esercitarne il controllo.

 

 

 

 


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