La mia casa è il mondo

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La mia casa è il mondo di Amartya Sen                                                            Seconda parte

Ricordare il passato (sia pure lontano) può anche essere un’esperienza piacevole, che ci riporta indietro a eventi difficili, riflessioni affascinanti e ardui dilemmi.                  (Amartya Sen)

Nella seconda parte del libro, La mia casa è il mondo. Un’Autobiografia, Amartya Sen si attarda a raccontare gli scontri intercomunitari tra indù e musulmani degli anni Quaranta, mettendo in risalto l’estrema conflittualità in cui è cresciuto. Ricorda, quando bambino nel 1944, vide arrivare nel giardino di casa un uomo gravemente ferito che implorava un sorso d’acqua. Colpevole solo di essere musulmano era stato linciato per strada da alcuni indù. Amartya non ha mai dimenticato quell’episodio.

Da allora il futuro Premio Nobel per l’economia ha imparato a diffidare di quelle categorie collettive – religione, razza, nazione, lingua – che hanno la pretesa di definire in maniera irrevocabile che cosa sia un individuo, e a vedere in questa «minimizzazione dell’essere» un seme di brutalità e di violenza. Ha compreso, inoltre, quanto fossero importanti e inique le distinzioni di classe tra proprietari terrieri e le masse contadine e quanto fosse profondo l’impatto delle distinzioni economiche tra le due comunità degli indù e dei musulmani e le ingiustizie sulla distribuzione della terra.

Gli anni adolescenziali dell’autore furono caratterizzati dalle continue visite agli zii e cugini “ribelli”, sottoposti a «detenzione preventiva», nelle carceri britanniche perché impegnati coraggiosamente a liberare l’India dal dominio coloniale.                          Nella scuola di Santiniketan e in famiglia, Amartya partecipava presso il caffè del College alle impegnative conversazioni, alle serrate discussioni e ai dibattiti intellettuali sul dominio britannico (durato fino al 1947) e sulla questione dell’indipendenza dell’India; temi che hanno determinato un fruttuoso scambio di idee. L’India britannica, con il suo imperialismo classico, durato duecento anni dalla fine del XVIII secolo fino alla proclamazione dell’Indipendenza, ha permesso di tenere il Paese unito e di modernizzarlo grazie al potere della Compagnia delle Indie orientali.

Nell’orizzonte della sua infanzia presente e vivo è il ricordo della grande città multiculturale di Calcutta (capitale dell’India britannica) famigerata per la povertà, degrado e squallore, «incarnazione della miseria urbana». Da bambino di nove anni vide persone per le strade morire di fame e fu in questa metropoli, dove si era trasferito come studente al Presidency College, che incominciò a riflettere sull’iniquità della tirannia imperiale. Calcutta, una delle città più povere del pianeta, caratterizzata da vertiginosi contrasti, era una città stimolante dal punto di vista intellettuale e culturale per la presenza di teatri, librerie, cinema e altre forme di cultura e ospitava la fiera del libro più grande al mondo.

Presso il Presidency College, prestigiosa istituzione educativa per la solida tradizione di libero pensiero, Amartya ebbe modo di conoscere illustri intellettuali della città, una galassia di eccezionali figure di autorevoli studiosi accademici e scienziati di fisica, statistica, matematica ed economia. Appassionato di matematica fu gradualmente persuaso dai suoi insegnanti a studiare economia, anziché fisica, spinto dalle sue passioni politiche e dai suoi interessi sociali necessari per rimodellare l’India.

Eccellenti sono i suoi ricordi dei docenti e dei compagni di studio, con i quali aveva stretti rapporti di amicizia soprattutto con quelli impegnati nella battaglia per la soppressione della diseguaglianza e dell’ingiustizia nel mondo.

Gli anni trascorsi nel College sono stati per Amartya molto formativi per lo sviluppo della sua personale concezione del ragionamento matematico sistematico sulla scelta della teoria sociale, scaturita dallo studio dell’economista statunitense Kenneth Arrow (Premio Nobel per l’economia nel 1972) e dai contributi pionieristici alla teoria dell’equilibrio economico generale e alla teoria del benessere di John Hicks.

Fin da giovane l’autore ha nutrito un grande interesse per le tesi di Marx, per la visione marxista dell’economia, basata sul valore lavoro e sullo sfruttamento dei lavoratori. Secondo Marx c’era sfruttamento economico perché i lavoratori non disponevano di una forza contrattuale. Leggendo gli scritti di Marx, Amartya ha dedicato molte ore di studio serale soprattutto in rapporto all’illuminante distinzione e reciproca competizione tra il principio di “non sfruttamento” e il «principio dei bisogni», accolto quest’ultimo tra le ambizioni e aspirazioni politiche in tutto il mondo moderno. L’etica di bisogni e della libertà è stata parte integrante dei principi più progressisti che hanno avuto una profonda influenza sull’Europa.

L’analisi economica e sociale di Marx ha avuto un impatto decisivo sul pensiero di Amartya Sen per la comprensione delle diseguaglianze di classe, di genere e della società, tenendo conto della relazione bidirezionale tra il valore delle idee e le condizioni materiali.

L’autore, dopo la triste parentesi del drammatico racconto della «precoce battaglia» per affrontare e superare il cancro alla bocca, continua nell’Autobiografia a narrare la sua vita puntualizzando il viaggio in Inghilterra per studiare economia al Trinity College di Cambridge con l’economista marxista Maurice Dobb e l’importante pensatore in campo economico e filosofo, Piero Sraffa, amico e collega di Antonio Gramsci.

Nel raccontare con leggerezza e capacità analitica sensazioni, emozioni, passioni e pensieri Amartya Sen con la sua Autobiografia riesce a mettere in risalto i principali temi e le angosce, le contraddizioni e il senso profondo della sua esistenza.

 


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