L’angolo delle curiosità su Dante Alighieri

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«Dolce color d’oriental zaffiro» è per Jorge Luis Borges il più bel verso della Commedia.  (Purgatorio, Canto I, v. 13)

Nella Divina Commedia, con il verso 102 («sì ch’io fui sesto tra cotanto senno») del quarto canto dell’Inferno, Dante si piazza, unico moderno, tra i poeti classici: Omero, Virgilio, Orazio, Ovidio, Lucano. In quella scuola di saggi tanto famosi, Dante si pone ultimo nel tempo e nel pregio e in qualche modo alla pari con essi.

«Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia»: quarto verso del quinto canto dell’Inferno. Qui, nel secondo cerchio custodito dal terribile giudice Minosse, mostro dalla lunga coda, Dante incontra i lussuriosi, «i peccator carnali che la ragion sommettono al talento», condannati dalla legge del contrappasso a essere sbatacchiati in eterno di qua e di là dalla tempesta, così come erano stati travolti dalle passioni nella vita terrena. È un canto molto carnale, pieno di sensualità ed erotismo. In cui si sente scorrere il desiderio. Dante incontra la regina degli Assiri Semiramide, Didone, Cleopatra e Paolo e Francesca.

Il settimo canto dell’Inferno ha inizio con un famoso verso, «Papé Satàn, papé Satàn aleppe!» misterioso e insieme inquietante e anche divertente. Molte ipotesi sono state avanzate per spiegare il significato di queste celebri parole pronunciate da Pluto che sembrano prive di senso in quanto esempio di un linguaggio demoniaco. La frase è formata di termini che si trovano nei vocabolari e nei trattati di etimologie del Medioevo.

La Vita nuova, che è un prosimetro, un’opera giovanile mista di prosa e      di versi, un piccolo libro che il poeta scrisse quando non aveva ancora trent’anni. Al centro del libro c’è Dante stesso, la storia del suo amore per Beatrice, dal momento dell’innamoramento alla morte della donna, un sentimento ricostruito nelle sue varie fasi. L’amore di Dante verso Beatrice diventa nel tempo sempre più disinteressato e svincolato da interessi egoistici, attraverso la lode di lei, creatura «venuta dal cielo in terra a miracol mostrare».

 L’amore cristiano incarnato nel rapporto sincero tra Beatrice e Dante è un amore vero, cioè appassionato per l’individuo nella sua integrità che raggiunge la sua piena adeguatezza con la salvezza eterna.

Ha scritto lo storico dell’arte Antonio Paolucci che «Dante Alighieri e Giotto di Bondone, concittadini e coetanei hanno compiuto negli stessi anni, ciascuno nel proprio settore operazioni simili. Dante ha preso l’esausto ossificato latino dell’Università e della Chiesa, lo ha macerato nei fermenti vivi dei volgari italiani e degli idiomi romanzi e ha “costruito” la lingua letteraria che sarà, dopo di lui, di Petrarca, del Bembo, di Leopardi e del Manzoni. Giotto ha assunto, metabolizzato e trasformato la tradizione figurativa bizantina e l’ha messa a confronto con la conquista dello spazio e del Vero di natura ed emotivo, aprendo così la strada alla pittura italiana dei grandi secoli: il Masaccio della Cappella Brancacci al Carmine di Firenze, il Piero della Francesca, di Arezzo fino a Raffaello delle Stanze del Vaticano».

Fino a metà del secolo scorso alcuni italiani istruiti, a scuola, imparavano a memoria qualche canto della Divina Commedia, altri nostri concittadini, analfabeti, praticavano l’esercizio di memorizzare i passi più famosi del grande poema (Paolo e Francesca, Ulisse, il Conte Ugolino, Pia de’ Tolomei, Inno alla Vergine…). Questo fatto dimostra come nella Commedia  di Dante c’è l’umanità di ogni epoca.


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