Le altre Stanze Vaticane di Raffaello

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Solo perché non sapete che cosa sia una natura naturans come quella di Raffaello, non vi fa né caldo né freddo apprendere che cosa fu e che non sarà più.                                                        Friedrich Nietzsche    

 La Stanza di Eliodoro (1511)                                              Dopo che gli affreschi della Stanza della Segnatura avevano consacrato Raffaello a pittore di corte, il papa Giulio II gli affidò anche la decorazione della seconda Stanza Vaticana detta di Eliodoro. Il primo affresco fu La Cacciata di Eliodoro dal Tempio, con la sua potente e magnifica struttura architettonica.                                                                                                       Questa Stanza, destinata alle udienze private del papa, rappresenta l’episodio del Secondo libro dei Maccabei (3,23-24) e simboleggia la protezione offerta da Dio contro i suoi nemici e il diritto divino della Chiesa a possedere beni terreni. La formulazione del tema è strettamente legata agli interessi politico-religiosi di Giulio II.

L’episodio biblico rappresenta Eliodoro il siro che, inviato a Gerusalemme per impadronirsi del tesoro del tempio di Salomone, viene punito da Dio con l’apparizione di un terribile cavaliere con un’armatura d’oro, aiutato da due giovani sospesi in aria.

L’evento allude ai successi politici del pontefice, favoriti dall’appoggio divino, che più volte era accorso in aiuto della Chiesa minacciata dal potere straniero. Tutto si svolge in uno spazio drammatico, con al centro un vuoto che spinge le figure ai lati.

Nella parte centrale del fondo della scena è rappresentato un sacerdote che prega inginocchiato. A sinistra il pontefice Giulio II della Rovere, con accanto vedove e orfani,  entra sulla sedia gestatoria (condotta da alcuni personaggi tra cui è stato riconosciuto anche un autoritratto dell’artista), con la sua corte per ammirare l’affresco appena terminato, mentre a destra si volge la scena biblica del ministro siro. Un quadro è dunque collocato nel quadro, come se il papa, dal volto forte e arguto, fosse realmente presente.

Il miracolo di Bolsena (1512)                                                Il soggetto di questo secondo affresco rappresenta l’episodio di un sacerdote boemo, in crisi di fede, che nel 1236, incredulo riguardo alla transustanziazione (la presenza di Cristo nel pane e nel vino dell’eucarestia), aveva visto sgorgare sangue dall’ostia che stava consacrando (miracolo che ha generato la festa del Corpus Domini).

La composizione, inserita all’interno di un’architettura dalle forme classiche e potenti, è divisa in due parti: a sinistra è rappresentato il miracolo; a destra è posto l’anziano pontefice Giulio II che, insieme alla sua corte di cardinali, diventa testimone dell’evento. Il pontefice inginocchiato, alza le mani giunte in preghiera, fissando in concentrazione il miracolo che si sta compiendo sull’altare, mentre le guardie svizzere assistono genuflesse nel sontuoso abbigliamento di velluto e raso con armature.                                                                                Il coro ligneo fa da sfondo alla scena e collega realmente i vari personaggi, che così si trovano collocati nello stesso spazio. L’affresco colpisce l’attenzione per gli straordinari effetti di luce e le accensioni cromatiche.

La Liberazione di san Pietro dal carcere di Gerusalemme (1512)                                                                                   In questo terzo affresco Raffaello rappresenta l’episodio narrato dagli Atti degli Apostoli (12, 1-19) con uno straordinario gioco di luce e tenebra (indimenticabile è la luna che si affaccia in un cielo estivo velato di nubi lievi). Protagonista assoluto di questo capolavoro è la luce che appare nella scena in diverse forme.                 La composizione è unitaria sebbene il racconto si svolga in tre episodi. Al centro è rappresentato «il lucidissimo splendor de l’Angelo» (come scrive il Vasari) che appare a Pietro legato alle catene e disteso a terra, immerso nel sonno. A destra l’angelo, spezzando le catene, conduce l’apostolo, dal volto stanco e anziano, fuori dal carcere. A sinistra alcuni soldati sbalorditi scoprono la fuga e si agitano al chiarore della luna e al baluginare delle fiaccole che si riverberano nelle loro armature.                                                                                                                 In questo affresco Raffaello dipinge uno dei primi notturni della storia dell’arte italiana e integra, in maniera magistrale, la luce naturale (reale e dipinta) con quella artificiale e quella soprannaturale e anticipa le ricerche luministiche di Caravaggio e di Rembrandt. Infatti le fonti di luce sono diverse: sulla sinistra si vede il tramonto che rosseggia su Roma (luce naturale), dentro ci si sono le torce delle guardie (luce artificiale), infine c’è la luce abbagliante dell’angelo (soprannaturale).

L’incontro di Leone Magno e Attila (1514)                            L’affresco si riferisce all’episodio avvenuto nel 452, in prossimità del fiume Mincio, dove papa Leone Magno era riuscito ad arrestare l’avanzata di Attila, re degli Unni, su Roma. Nel dipinto il papa, che rivela i lineamenti di Leone X de’ Medici, (succeduto a Giulio II, morto nel 1513) è ritratto in primo piano sul suo cavallo, in basso a sinistra, mentre sullo sfondo si apre una veduta di Roma.

Quando Raffaello dipinse questo affresco si disinteressò  del suo stile a tal punto che non solo tutte le conquiste cromatiche del Miracolo di Bolsena furono dimenticate, ma anche la composizione spaziale, che aveva fatto la gloria della Scuola di Atene, scomparve. Una gran folla di cavalli e cavalieri distesa sulla parete con forme chiaroscurate, preoccupati soprattutto della loro eleganza, costituirono un’illustrazione del fatto storico senza poesia e dramma. Con questo affresco si concludeva l’arte rinascimentale e cominciava il Manierismo.                                                                                                                            Raffaello in questa seconda Stanza elaborò un linguaggio figurativo di estrema energia e tensione, di volta in volta potentemente drammatico negli effetti scenografici (Cacciata di Eliodoro dal Tempio), nei contrasti di luce (Liberazione di San Pietro dal carcere), nella violenza dell’azione (Attila e Leone Magno) o di inedita ricchezza e sonorità nell’impianto cromatico (il Miracolo di Bolsena).

La Stanza dell’Incendio del Borgo (1514)                               Tra il 1514 e il 1517 Raffaello lavorò a questa terza Stanza destinata ai pranzi di cerimonia. La decorazione si sviluppa secondo un ciclo iconografico ripartito in quattro episodi che hanno come protagonisti papi di nome Leone: l’Incendio del Borgo, la Battaglia di Ostia, l’Incoronazione di Carlo Magno e la Giustificazione di Leone III.                                      

Con l’Incendio del Borgo, opera considerata enfatica e teatrale, per la sua carica innovativa,  Raffaello influenzerà i pittori dei secoli successivi. Con questo dipinto si è soliti far coincidere l’inizio dello stile pittorico, venato da un senso eroico della classicità, che contraddistingue gli ultimi anni di Raffaello.                                                                                                           I soggetti raffigurati si riferiscono a episodi dei pontificati di Leone III e di Leone IV e alludono ad avvenimenti analoghi del papato di Leone X. In questo modo Raffaello celebra attraverso esempi della storia antica l’autorità e il prestigio culturale del papato di Leone X de’ Medici che, durante il suo pontificato, aveva domato le discordie, placato il fuoco della guerra e riportato pace in Italia.

In questo affresco è illustrato un episodio miracoloso narrato nel Liber Pontificalis quando nel rione romano nell’847 si sviluppò un violento incendio domato miracolosamente dal Leone IV (personificazione di Leone X) riconoscibile sullo sfondo mentre benedice, affacciandosi alla loggia, il quartiere per placare le fiamme.

Raffaello coglie la disperazione dei popolani mentre tentano disperatamente di porsi in salvo. Sul lato sinistro è rappresentato il gruppo di Enea che porta sulle spalle il vecchio padre Anchise, seguito dal figlio Ascanio e da Creusa, per ricordare l’incendio di Troia. In questo affresco lo stile di Raffaello appare più maturo, diverso nella composizione perché non si basa più sull’inquadratura architettonica, ma sul pathos dei drammatici gesti delle figure che sono, nelle forme, accostabili ai nudi di        Michelangelo Buonarroti.                                                                                                                                                     Dopo la morte del papa Giulio II della Rovere (1513) e in seguito all’elezione di Leone X de’ Medici, le Stanze cessarono di essere al centro dell’attività di Raffaello e l’affresco raffigurante l’Incendio del Borgo rimase affidato agli allievi sotto il controllo del maestro.

La Sala di Costantino (1520)                                                  Questa sala, la più maestosa e la più politica delle Stanze Vaticane, fu iniziata da Raffaello con un progetto generale che non ebbe modo di portare a termine «per una grandissima febbre» come attesta Giorgio Vasari nelle Vite d’e più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani, e fu conclusa dagli allievi Giulio Romano e Giovan Francesco Penni. Tracce di Raffaello sono rintracciabili nelle due raffinate figure della Comitas (l’amicizia, parete est) e della Iustitia (parete sud).


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