Le parole straniere del Coronavirus

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Il linguaggio è importante perché la semantizzazione dell’esperienza scova le diverse componenti della realtà che a noi paiono significanti, le separa e le nomina e  permette così di conoscerle e quindi di parlarne.                                         Edoardo Boncinelli

Molti sanno che le parole sono essenziali per comprendere il mondo e che più siamo competenti nel padroneggiare le parole, più sarà completa e soddisfacente la nostra partecipazione alla società in cui viviamo. È attraverso il linguaggio che comunichiamo con il mondo e definiamo la nostra identità, esprimiamo la nostra storia e cultura, impariamo e difendiamo i diritti umani e partecipiamo ai vari  aspetti della società. Non dimentichiamo l’insegnamento di don Lorenzo Milani che saggiamente affermava: «La parola è la chiave fatata che apre ogni porta».

In questo particolare momento di emergenza sanitaria planetaria, inerente alla salute di milioni di uomini e donne in ogni angolo della Terra, parole chiave ed espressioni linguistiche si sono imposte alla nostra attenzione e sono state più frequentemente adoperate: coronavirus, infezione, quarantena, “zone rosse”, misure di prevenzione epidemiologica, sintomi, contagi da arginare, «paziente zero», incubazione, terapie intensive, asintomatici, paucisintomatici, sistema immunitario, distanziamento fisico e sociale, intubare…                                                                                             L’universo linguistico espressivo e comunicativo, individuale e collettivo, scientifico e mediatico, è stato invaso da questo profluvio di parole che hanno suscitato pensieri, stati d’animo, emozioni, sentimenti di paura, di angoscia e di speranza. In maniera profetica lo scrittore Italo Calvino scriveva che «alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola» e lo scrittore siciliano Leonardo Sciascia aggiungeva che nel credere «nel loro mistero le parole possono diventare vita, destino» per ogni essere umano.

Pertanto è necessario tener presente che alle parole, che adoperiamo, spetta il dovere di creare ponti e di metterci in rapporto profondo con gli altri esseri umani e  che le parole ci consentono di entrare in relazione con noi stessi, con gli altri e con la realtà circostante, oppure ci impediscono di farlo.

Per questo motivo riteniamo che gli esperti, gli scienziati, i politici, gli amministratori pubblici e i responsabili della comunicazione mediatica hanno forse esagerato nel mettere in circolazione locuzioni linguistiche  e parole straniere di immediata comprensione da parte dell’opinione pubblica. Le parole che maggiormente sono state pronunciate “a tutto spiano” in questo periodo pandemico sono degli anglicismi e francesismi non sempre indispensabili, talvolta inutili, perché tradotti in italiano risultano più chiari e comprensibili.

Ci riferiamo al flusso di espressioni e parole straniere come: droplet,  goccioline che possono essere causa principale di contagio; triage che letteralmente significa scelta, separazione, cernita e che in riferimento alla situazione dell’emergenza sanitaria vuol dire decisione, nel pronto soccorso, della priorità degli interventi in base alla gravità dei pazienti; social distancing che semplicemente significa distanziamento sociale di sicurezza, una delle misure di contenimento per evitare di essere contagiati.

È vero che alcune delle parole straniere arricchiscono il nostro lessico, ma è altrettanto vero che spesso producono, in chi recepisce messaggi, difficoltà di comprensione e di interpretazione. È ulteriormente utile che molta letteratura scientifica internazionale usi e si esprima in lingua inglese per una certa uniformità linguistica, così da garantire rigore e precisione terminologica, per eliminare ambiguità semantiche e avere informazioni univoche per la diffusione di idee, metodi di sperimentazione e di conoscenza più coordinati e inequivocabili e per coordinare strategie comuni e poter sconfiggere così la malattia nel quadro di una cooperazione transnazionale.

Altre parole straniere molto utilizzate sono state lockdown (chiusura, isolamento), task force, (forza destinata a un determinato compito), smart working (lavoro agile da realizzare in casa), spillover (salto interspecifico delle malattie dagli animali all’uomo; termine che indica il momento in cui un virus patogeno passa da una specie ospite a un’altra), testing (prova, verifica empirica), termoscanner (termometro infrarossi a pistola, professionale, portatile, frontale a distanza): termini presi in prestito da ambiti disciplinari legati al mondo dell’economia, della sociologia, dell’organizzazione del lavoro, del management, della tecnologia, dell’informatica.

Alcune di queste parole, che sono state utilizzate nel momento dello scoppio improvviso e inaspettato dell’epidemia, certamente non hanno facilitato la comprensione piena e sicura di ciò che s’intendeva comunicare e, di conseguenza. non hanno provocato e agevolato l’assunzione di comportamenti adeguati alle situazioni hic  et nunc.  Alcune delle locuzioni linguistiche, verbali e/o scritte, che esprimono idee e concetti complessi, non sono comprensibili da tutti e, quindi, difficilmente assimilati e utilizzati con facilità nel lessico passivo e attivo dei destinatari.                                                                                                              Nel tener presente ciò che ha detto il medico, Giuseppe Naretto, «le malattie prima ancora di essere alterazioni biologiche del corpo, sono delle esperienze umane, dove la “cura” non è soltanto quella della macchina biologica, ma è anche e soprattutto la cura della persona», non possiamo dimenticare l’idea luminosa del filosofo austriaco, Ludwig Wittgenstein,  che nel Tractatus Logico-Philosophicus ha scritto: «I confini del mio linguaggio determinano i confini del mio mondo. Tanto più si arricchisce il mio linguaggio tanto più aumenta la mia possibilità di fare esperienza del mondo».

 


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