“Se le cose stanno così è perfetto, andiamo al voto subito”. Luigi Di Maio ha ascoltato insieme al suo stato maggiore le parole che Nicola Zingaretti ha pronunciato dopo le consultazioni con Sergio Mattarella. Il naso si è cominciato a storcere per la dura condanna delle politiche del Governo gialloverde, per l’ostentata sottolineatura delle distanze politiche tra i due partiti. “A che gioco sta giocando?”, si è chiesto il capo politico. Qualcuno dei suoi ha provato a rassicurarlo: “Sta parlando ai suoi”.

Poco dopo lo sgomento. Perché sulla scrivania del vicepremier arrivano le tre vere condizioni poste da segretario Pd di fronte al presidente della Repubblica per il varo di una cosa giallorossa: abolizione tout court dei due decreti sicurezza, stop all’iter del taglio dei parlamentari così come è stato concepito finora e del referendum propositivo, messa a punto dei contenuti della prossima legge di stabilità prima di chiudere qualsivoglia accordo.

Al quartier generale 5 stelle sono sbiancati. “Ma è possibile far uscire condizioni capestro così prima di sedersi al tavolo? Roba da dilettanti”. Un uomo vicino a Di Maio aggiunge: “Da dilettanti, forse. O da chi vuol far saltare la trattativa”.
Il corpaccione del Movimento 5 stelle, fino a ieri inchiavardato per la stragrande maggioranza alla strada che conduce al Nazareno, vacilla. Le voci che le condizioni poste dal Pd siano irricevibili si moltiplicano. “Il Pd non può dettare nessuna condizione, figuriamoci queste”, dice un deputato molto influente. “Hanno il 16%. No? Va bene, il 20%, ma un 20% pure spaccato”. Paragone esce in chiaro e su Facebook si scaglia contro “quel solito senso di spocchia e di superiorità del Pd che mal sopporto”.


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