Paragonare “Canale Mussolini” e “La strada del mare”, il primo e secondo romanzo di Antonio Pennacchi al dittico “I Malavoglia” e “Mastro Don Gesualdo” di Verga sarebbe pretestuoso o pretenzioso sia per lo stile sia per la scrittura, niente affatto  “impersonale” né verista, neanche manzoniana tutt’al più “scapigliata”  attraversata cioè da guizzi lessicali ed espressivi mai accademici o letterari, sempre in-calzanti, giusti a creare un’immediatezza immaginifica e paesaggistica da suggestionare il lettore che si ritrova catapultato in medias res cioè nei luoghi, nelle circostanze, nei “giochi” infantili e giovanili. Ricostruiti dall’autore attento nel distillare il succo ora giocoso ora saporito di una vena linguistica nazional popolare che, specie per certe espressioni dialettali (veneto), fa pensare al grande poeta meneghino Carlo Porta per il quale il dialetto significava a tutti gli effetti la lingua madre ossia della povera gente. Dal canto suo Pennacchi tende a miscelare sapientemente la lingua ufficiale e quella vernacolare creando dei raccordi ora cromatici ora squisitamente musicali che rendono la lettura agile, gustosa, soprattutto visiva. Godibilissime le “sequenze” dal sapore neorealistico per immediatezza del gesto, la  eco delle voci, l’umorismo o il tono scherzoso, anche lo sberleffo e qualche “parolaccia” ,ovviamente, mai fine a se stessa, significante più che significativa (come nel Porta,in Pasolini) rimandando a pensieri o espressioni colorite ora ironiche ora “satiresche” […] ”Io adesso non dico che a Cencelli bisogna erigere un tempio in  piazza del Popolo [però] Neanche una via un vicolo,un cortile, che lo ricordi. A Sabaudia –Ch’agh vegna un càncher anca a lori- a Sabaudia un viale glielo hanno intitolato. A Pontinia e Littoria –pardon,Latina- invece nisba. Ma almeno un monumento in piazza,non sarebbe giusto metterlo? Un bel Cencelli a cavallo col suo frustino a fianco […] E se di bronzo costa troppo –ma non credo- lo facessero di plastica riciclata, che diventa pop-art”. Arguzia, ironia e autoironia, amore del concreto non disgiunto .da luminosi sprazzi fantasiosi, a volte favolistici.  […] “Notte e giorno –d’estate e d’inverno- i latinensi fanno su e giù, a guardare i cavalloni che si frangono per tornare a casa in città, su questo vialone largo alberato, la pista ciclabile e ville, villette, villini e palazzine con giardini pieni di alberi e di verde da ogni lato. Certo non è una strada tracciata da Cencelli. Lui non la fece perché non c’erano poderi  Onc da raggiungere, nella fascia costiera: <Casso agò da farla fare?> […] Ma bastava  che la mattina, davanti a scuola, ci fosse un sole splendido e nessuna nuvola in  giro –come accade spesso d’inverno da noi- che subito qualcuno proponeva:<Madonna che giornata, regà. Famo sega?>. <De corsa> e bucavamo la scuola o bigiavano, come dite voi al Nord. “

“Canale Mussolini” non è propriamente un romanzo storico come non lo sono i romanzi del Verga, “La storia” di Elsa Morante, da ultimo  “La strada del mare” che pure attraversano e sono attraversati dalla storia. Nel catanese e nella scrittrice in controluce, in Pennacchi in “presa diretta” di una pagina della storia del Novecento, la fondazione di Littoria nel 1932 e conseguente migrazione dei veneti. Di storico nel romanzo precedente c’è la narrazione documentata e “interpretata” della nascita di una città e di un popolo che la storia ufficiale ha legato inequivocabilmente al suo evolversi. Con “La strada del mare” è come se l’autore passi dal “pubblico” al “privato” raccontandoci la nascita di una strada che per gli abitanti della città di allora, specie i giovanissimi e giovanotti come lui e me rappresentò la porta del paradiso, percorsa (da tutti) con trepidazione al suo nascere, col passare del tempo benedicendola sempre più grati a chi se la inventò. Prima di allora, di nascosto dai genitori noi giovanotti ci tuffavamo spavaldi e spericolati nel Canale delle Acque Medie (strada verso la Stazione), con la nuova strada insperatamente provammo la gioia di poter raggiungere il mare in  corriera  o bicicletta,andare a tuffarsi. Un’euforia che Pennacchi fotografa con il sentimento e l’amore propri del giovane di allora,a posteriori, del cittadino di oggi. Rendendo il lettore partecipe dell’incredulità o stupore pari a quelli per la nascita in casa di un bambino come ancora s’usava in quegli anni, onnipresente la storica,mitica levatrice Cocco a buon diritto ricordata. “Notte e giorno –d’estate e d’inverno- i latinensi fanno su e giù, a guardare i cavalloni che si frangono per tornare a casa in città, su questo vialone largo alberato, la pista ciclabile e ville,villette,villini e palazzine con giardini pieni di alberi e di verde da ogni lato. Certo non è una strada tracciata da Cencelli. Lui non la fece perché non c’erano poderi  Onc da raggiungere, nella fascia costiera: < Casso agò da farla fare? > […] Ma bastava  che la mattina, davanti a scuola, ci fosse un sole splendido e nessuna nuvola in  giro –come accade spesso d’inverno da noi- che subito qualcuno proponeva:<Madonna che giornata regà.  Famo sega?>. <De corsa>  e bucavamo la scuola o bigiavano, come dite voi al Nord. >”. Impagabili le pagine dedicate al Palazzo della Previdenza Sociale (in origine INFS, poi INPS), davvero “teatrali” dove abitava Antonio P.,“un casermone, un quadrilatero gigantesco[…] Era un formicaio, dove le donne figliavano a tutte le ore […] Ma noi quella volta eravamo poveri e la Previdenza sociale una pipinara di tutte le età..”. Della “pipinara” facevano parte il mitico Avv. G. Grifone, diversi impiegati dell’INPS tra cui Maulucci , il figlio Giorgio indaffarato col teatrino dei burattini, una nutrita ciurma di ragazzini che scorazzava in lungo e in largo nel cortile e sul terrazzo(ne), “…uno splendido grande circuito, su cui si poteva correre in bicicletta…..”. Vere e proprie scene di e da un’infanzia da sogno rievocate con una dolcezza nostalgica e al tempo stesso comica, da commedia dell’arte(!). “Il padre era un impiegato dell’Inps che faceva pure, però il corrispondente del Messaggero. Erano gli unici –in tutta Latina-Littoria- che d’estate andavano in villeggiatura. A un certo punto sparivano. <Niente teatrino> si lamentavano le femmine. <Menomale> facevamo noi maschi. Ma dopo una settimana o due questo Giorgio riappariva col fratello piccolo appresso  <Siamo stati in Tirolo>; < Ah be’> si estasiavano le femmine; <Ci potevi restare> mugugnava invece  Otello […]< Ma che razza di teatro è questo?>insisteva Otello: <Questa è la recita che fanno dalle suore. Il teatrino vero è il mio>”.Un viaggio tra sentimento, “favola” e realtà sull’onda di una soffusa nostalgia non superficialmente “nostalgica”, diremmo piuttosto “ricognitiva”. In controcanto, uno spiritaccio plebeo (il pensiero va sempre al Porta) che scorre sul filo di una prosa vivida, accattivante, degna di una sceneggiatura di Zavattini: neorealismo puro.

 


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