La luce delle stelle morte

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La luce delle stelle morte  (Saggio su lutto e nostalgia)                                     di Massimo Recalcati

Sono grato ai miei innumerevoli morti per quel che ho ricevuto; lo porto con me non come  una reliquia da ossequiare, ma come qualcosa che attende ancora la sua come un vento di primavera, un vento australe che soffia  dal sud. (Massimo Recalcati).

Con queste parole riportate nell’esergo l’autore del testo, Massimo Recalcati capace di unire profondità di temi a limpidezza e bellezza di stile, affida al lettore le sue lucide riflessioni sulla morte e sul trauma della perdita di persone care.

Nell’Introduzione, infatti, dell’inquietante libro, La luce delle stelle morte. Saggio sul lutto e nostalgia (editore Feltrinelli) scritto con autentica passione e bravura, Massimo Recalcati, psicanalista tra i più noti in Italia, afferma con estrema chiarezza e coerenza che l’idea centrale del volume è il rapporto della vita umana con l’esperienza traumatica della perdita, e si pone laceranti interrogativi che riguardano «cosa accade dentro di noi quando la malattia e la morte strappano dalle nostre braccia persone che davano senso alla nostra vita e al nostro mondo? Quando siamo costretti a perdere chi abbiamo tanto amato?

  La triste e drammatica esperienza del lutto, affrontata nella prima parte del libro tenta di fornire risposte a queste fondamentali domande, mentre la seconda parte è invece dedicata al sentimento della nostalgia e alle sue diverse forme, o volti, del rimpianto, come rimemorazione di un passato felice, ma irrimediabilmente perduto, e come forma di cronicizzazione melanconica del lutto, e della gratitudine che costituisce una potente risorsa psichica di rinnovamento della vita.

Secondo la filosofa Hannah Arendt l’uomo non è stato fatto per morire, ma per nascere. Tuttavia la vita umana ha inizio con il suo primo respiro e la morte, sempre ingiusta, è l’inesorabile destino che attende gli uomini alla fine della loro esistenza.                                                                                                                                            L’ultima parola pronunciata da Jaques Lacan è stata “scompaio” che è una forma radicale della separazione che assume la forma gelida della sparizione, della dissoluzione che è una condanna, una imposizione subita della legge della morte.

         Scomparire definitivamente, facendo riferimento ad autori come Roland Barthes, Francis Ford Coppola, Georges Simenon, Albert Camus, Jean Paul Sartre, Nietzsche, Jung significa sciogliere ogni legame con gli altri, essere destinati a perdersi irreversibilmente, ad essere non più reperibili, raggiungibili, e non avere più contatti. Perdere chi dava senso alla nostra vita, significa perdersi.

Il trauma della perdita di una persona amata consiste nel fatto che non c’è più nessuno ad attenderci e rende impossibile l’esperienza dell’attesa. L’oggetto amato non c’è più e non tornerà più e non potrà più essere atteso. È il segno inequivocabile della fine. A molte persone che hanno perso persone care, da cui si sono separate, capita di ripetere con insistenza il nome.

L’autore con straordinario coraggio si chiede «mentre chi muore lascia questo mondo per entrare nel regno dei morti, cosa accade a chi resta in quello dei vivi?». Nessuno può raccontare la sua morte, nessuno può sapere cosa accade dopo la nostra morte. Sono i vivi che vorrebbero sapere qualcosa dei loro morti e che sopportano le conseguenze della scomparsa di chi muore.

Il lutto, come esperienza traumatica della perdita definitiva di un oggetto che dava senso alla nostra vita, è la condizione dolorosa che colpisce chi sopravvive e deve misurare la sua totale impotenza di fronte allo strapotere assoluto della morte.

Il tempo del lutto sottolinea che il mondo, svuotato di senso, non è più quello che era prima del trauma della perdita e viene rigettato e vissuto come ostile. Si avverte un buco, un vuoto, un cataclisma psichico; la realtà è diversa, estranea, dolorosamente implacabile. La separazione viene inconsciamente rifiutata perché la persona perduta è ancora presente con il ricordo, il rimpianto, l’identificazione e la nostalgia; la sua assenza è la forma più inquietante della sua presenza.

Secondo Massimo Recalcati che fa riferimento alle sue pregnanti esperienze professionali, quando il trauma della perdita si prolunga, impedendo la sua simbolizzazione, si parla di una stagnazione melanconica del lutto, di una angoscia melanconica della mancanza che si ha quando il lutto non viene elaborato psichicamente. La persona perduta, pur essendo assente, è dappertutto, ingombra con la sua presenza la vita di chi resta, di chi continua a vivere e il lutto, pieno di sofferenza, si allunga indefinitamente nel tempo.                                                                  La perdita traumatica e dolorosa, con le sue varie difficoltà, viene vissuta come un continuo autorimprovero; si avverte il peso insopportabile della colpa, che divora la memoria, e un forte sentimento di struggente nostalgia. Tutto viene risucchiato all’indietro e il lutto rigettato, producendo una deriva depressiva, si cristallizza in un rimpianto inconsolabile e insopportabile.

           Occorre evitare il rischio della eternizzazione del lutto, riconoscendo che l’esperienza della perdita è dolorosa e che il lutto va elaborato attraverso un lungo e necessario lavoro psichico di separazione simbolica e di effettivo distacco dalla persona perduta con lo scopo di liberare il soggetto dal peso del dolore e del trauma, dalla fissazione melanconica sull’oggetto perduto, non escludendo il riconoscimento dell’importanza e del valore della persona e del dolore provocato dalla sua perdita.

           Secondo Recalcati il lavoro del lutto consente il passaggio tra la prima morte (la scomparsa irreversibile dell’oggetto amato) e la seconda morte (la separazione dall’oggetto perduto con la sua introiezione). È necessario il passaggio dal lutto, come dolorosa reazione emotiva, alla simbolizzazione della perdita che rende possibile, con il passar del tempo, lenire il dolore di una fine e liberare così il soggetto dalla presa inquietante di quella ombra e recuperare la libido, l’energia e il desiderio di vivere.

Tradurre la scomparsa della persona amata in una separazione dall’oggetto è la meta ideale di un lavoro del lutto che consiste in un lavoro della memoria che comporta riattivare tutti i ricordi che ci legano alla persona perduta, per rivivere il mondo che si condivideva. Non esiste lavoro del lutto senza memoria che è strettamente legato a un dolore psichico: memoria e dolore psichico coincidono, ricordare significa soffrire e la pena del dolore psichico è inevitabile. Una lenta metabolizzazione della perdita, attraverso il ricordare e accettare il dolore psichico che esso comporta, è necessaria per collocare dentro di noi l’oggetto che non è più con noi.

Memoria, dolore psichico e tempo necessario sono i primi tre elementi costitutivi e imprescindibili di ogni lavoro del lutto. Non esiste lavoro del lutto rapido perché questo lavoro esige tempo per essere elaborato e non può essere misurato, né definito a priori.

L’ultimo elemento dell’elaborazione del lutto è l’oblio dell’oggetto perduto che viene dimenticato perché la sua esistenza non ingombra più la vita del soggetto. Per Recalcati «l’oblio non viene raggiunto evitando la memoria dell’oggetto perduto, ma solo grazie alla sua memoria». Il lavoro faticoso del lutto è compiuto definitivamente quando la libido del soggetto ha cessato di rivolgersi all’assenza dell’oggetto perduto (che comunque per l’autore non si lascia dimenticare) per reinvestirsi su nuovi possibili oggetti libidici reali.

Nella seconda parte del libro (Nostalgie) l’autore torna alla domanda iniziale: «l’oblio generato dal lavoro del lutto può interrompere l’indugiare doloroso della memoria sull’oggetto perduto senza che di questa memoria resti nulla?». Per l’autore qualcosa della persona cara perduta resta indelebile, non si lascia dimenticare, perché c‘è sempre una parte dell’oggetto perduto che resta con noi e non può essere eliminata.                                                                                                                              La presenza del sentimento della nostalgia, come esperienza emotiva legata ai ricordi, alle sensazioni e alle immagini, indica il carattere interminabile del lutto. Il lutto, come esperienza di mancanza e di perdita, e la nostalgia sono termini legati in maniera profonda, poiché la morte di una persona cara non sarà mai dimenticata, è impossibile elaborare il lutto in maniera definitiva.

Figura fondamentale della nostalgia è Ulisse, che ha l’ardente desiderio di ritornare a Itaca per ritrovare Penelope e il figlio Telemaco, e il ritorno in patria non è che l’inizio di un nuovo viaggio. Il termine nostalgia miscela la figura del ritorno con quella del dolore perché l’assenza dalla patria perduta suscita struggenti sentimenti di mancanza e di vuoto.

La nostalgia ha diversi volti; è concepita come nostalgia-rimpianto e desiderio del ritorno con lo sguardo volto all’indietro che resta impigliata in un atteggiamento luttuoso, e come nostalgia-gratitudine che apre sull’avvenire e sa contemplare lo splendore dell’apparizione della luce delle stelle morte.

La nostalgia con la sua potenza creativa, che rende la luce delle stelle morte ogni volta nuova, diviene gratitudine nei confronti di una luce che irradia in modo sorprendente il nostro avvenire.

Con la luce delle stelle morte portiamo con e dentro di noi i nostri maestri, i nostri amori, i dettagli indelebili del nostro passato; voci che costituiscono una memoria del futuro, una eredità che è la forma più alta della nostalgia come risorsa che rende possibile una vita nuova. La gratitudine è la possibilità di una vita differente.

Nelle 133 dense e argute pagine del saggio, La luce delle stelle morte di Massimo Recalcati, è possibile riconoscere come il nostro animo reagisce, con la nostalgia e la melanconia, alla perdita inesorabile di chi abbiamo amato. L’autore, attraverso l’elaborazione del lutto e la nostalgia, aiuta i suoi lettori a restare vicini a ciò che hanno perduto senza però farsi inghiottire dal dolore.


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