“C’era una volta Hollywood” m’è parso il film più introspettivo dello straripante Tarantino,un viaggio spericolato tra cinema e teatro. Non so se l’abbia mai pensato o annusato ma una strizzata d’occhio a Pirandello è lecito supporla. In primis, il confine tra cinema e teatro: Pirandello giurava che l’uno non avrebbe mai oscurato l’altro pur mettendo in guardia dai “guasti” provocati dalla sorgente “macchina parlante” cioè il sonoro, comunque consapevole della importanza di essa. Tarantino fa un’operazione storico-critica del cinema la cui culla,ovviamente, è Hollywood ossia il cinema americano con tutti i pregi e gli inevitabili difetti: lo star sistems,la implicita o esplicita corruzione e/o perversione del sistema,il sottile veleno iniettato sia nei protagonisti sia nel pubblico.Con l’aggravante della televisione,oppio del popolo.Un film complesso,ai limiti dell’indagine psicoanalitica condotta attraverso lo sguardo e l’anima di uno straordinario Leonardo Di Caprio,encomiabile attore drammatico nonché teatrale. Il focus è il grande western dei film americani, ricostruito magistralmente nei suoi aspetti esteriori e “interiori” (la violenza,la sopraffazione, la vendetta e la sete di giustizia). Interni ed esterni impeccabili per il clima d’epoca,per la ricerca filologica degli ambienti tra cui l’incursione ricorrente sui set,la preparazione delle scene o sequenze, il trucco etc. Insomma, cinema nel cinema nel cinema o teatro nel teatro, la riflessione sull’attore: uno-nessuno-centomila, lo smarrimento della sua identità e l’impossibile sforzo di riappropriarsene; il senso del “doppio” (B.Pitt è la controfigura -standman- di Di Caprio), del rispecchiamento. Della crisi dovuta allo scemare della creazione artistica, del successo: il travaglio interiore del protagonista -la cifra del racconto- rimanda a “Viale del tramonto” di Wilder,un’altra pietra miliare della gloriosa Hollywood. Bellissimo il dialogo sul set di un film tra l’attore protagonista (Di Caprio) e una bambina di appena otto anni anch’essa nel cast, di eccezionale saggezza: dà una tremenda lezione di stile e disciplina all’attore: assai difficile è il mestiere dell’attore,bisogna studiare e capire prima di avventurarsi nella recitazione, ci vuole disciplina e rigore. L’abilità-genialità di Tarantirno consiste nel confondere magistralmente la realtà e la finzione in un un continuo scambio, una “confusione” o mescolanza di entrambe ribaltandole con improvvise impennate comiche o drammatiche. “Finzione”! “No,Realtà!” ribatte il Padre nei “Sei Personaggi” di Pirandello. La stessa battuta sembra risuonare durante tutta la visione del film tanto si è frastornati dalla reciproca preponderanza dell’una o sull’altra, dal reiterato sopraffarsi delle stesse. Magistrali,a tale riguardo,le sequenze del villaggio degli hippy,quella finale del massacro,l’unica in cui un Tarantino fin qui “tranquillo” torna al suo proverbiale spirito infuocato,eccezionale. Roman Polanski e la moglie S.Tate sono gli “ospiti d’onore” del film, emblematico sottotesto socio-culturale o di mal-costume; una misurata denuncia politica del regista sulle ripercussioni negative della macchina capitalistica dello spettacolo. I Polanski sono i vicini di casa del famoso attore(Di Caprio).Una notte alcuni hippy (drogati) fanno incursione in casa sua dove c’è anche la moglie(italiana) dell’attore e dello stadman(col cane), fanno una stage,la replica di quella avvenuta,nella realtà, in casa di Polanski in cui fu assassinata la Tate incinta. Mi pare assai apprezzabile oltre che significativa la scelta o l’intuizione del regista di avere evitato il realismo della cronaca deviando ,per così dire,sulla finzione.
Un Tarantino,dunque,alquanto pirandelliano, una sorta di “Serafino Gubbio operatore” che si rifiuta di giostrare con la macchina da presa: il regista ha dichiarato di chiudere col cinema per dedicarsi al teatro. (gmaul)


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