Il dialetto è come i nostri sogni, qualcosa di remoto e di rivelatore; il dialetto è la testimonianza più viva della nostra storia, è l’espressione della fantasia.                                           

Federico Fellini

Il dialetto, pur essendo un sistema linguistico riferito ad un ambito geografico limitato (regione, paese, contrada, quartiere, vicolo …) ha sempre soddisfatto le esigenze espressive e comunicative, quotidiane e familiari di una comunità, di un determinato gruppo sociale. Infatti il dialetto, che è uno dei maggiori tratti distintivi di una comunità locale, dove ciascun membro trova la propria storia, le proprie origini, la propria identità e un sentimento sociale, riassume forme e contenuti tradizionali, insiti nell’anima di una determinata comunità di parlanti.

Il dialetto è un linguaggio locale originario, legato alla memoria di individui e gruppi familiari e sociali, è una forma di lingua immediata e profondamente identitaria. Il dialetto si impara ascoltando e parlando in una comunità di affetti e di interessi e si distingue all’interno con vezzi, usanze, inflessioni che caratterizzano un paese. La parlata dialettale con le sue cadenze, con i suoi accenti, con le sue sfumature espressive e comunicative, con la sua schiettezza popolare, con il suo lessico familiare (per dirla con le parole di Natalia Ginzburg) identifica persone, gruppi sociali, intere popolazioni a cui dà un senso di appartenenza, una fisionomia culturale ben precisa.                                                                                                                    Il dialetto è caratterizzato dai suoni che se tengono a mente,  e fanno parte della nostra memoria uditiva, dai sapori, dagli adduri (odori), dai profumi provenienti dalla cucina di una nonna, dallo pano abbruscato allo foco, come ci dicono i versi delle due autrici.  Il dialetto come musica e ritmo è riscontrabile nel rappresentare e descrivere aspetti di vita familiare e sociale dove anche i bambini erano utili a fare i commanni, dove il vicinato esprimeva segni di sincera e affettuosa solidarietà umana.                                                                                                      Nella storia della letteratura italiana il dialetto ha raggiunto livelli artistici significativi come ad esempio con il romano Gioacchino Belli, che si è espresso in vernacolo romanesco descrivendo il popolo della Roma papalina della prima metà del XIX secolo, con il milanese Carlo Porta, con i napoletani Salvatore Di Giacomo, Edoardo De Filippo, con il friuliano di adozione Pier Paolo Pasolini, con i romani  Trilussa e Pascarella, con il siciliano  Ignazio Buttitta, con il romagnolo Tonino Guerra e con numerosi altri poeti. Le poesie dialettali sono state sempre documenti di inestimabile valore letterario.                                                                                                   Dopo questa necessaria premessa, è opportuno sottolineare che è encomiabile “la fatica letteraria” delle due brave concittadine Rosella Tacconi e Alba Marteddu perché, nonostante la consapevolezza d’immettere la loro scrittura in un circuito di lettori necessariamente ridotto, hanno dato vita ad una pregevole raccolta (A chi stòngo apprésso?) pubblicata dall’Associazione culturale Sintagma e stampata dalla tipografia Monti di Cisterna) di poesie dialettali di buona fattura linguistica, sotto il profilo fonetico, morfologico, metrico e lessicale e di spiccato valore letterario e creativo per la sua ricchezza semantica.

La bravura di Rosella e Alba è riscontrabile nel delizioso tratteggio dei diversi personaggi presenti nei vari componimenti: commare Tuta l’iniziatrice del gioco (La tomboletta), Nunziati’ che viene invitata a zurlare i numeri nel gioco che si svolgeva nella piazzetella, Tomassina La Bannella con il suo soprannome identificativo, Cesarino che aspettava glio giornale aradio per avere notizie ed essere informato sulle cose nòve deglio Governo deglio Papa i degli bbòcchi, per sapè pe’ glio munno che steva a succede’, ’Ntonia gl’Alifante che andava a vendere prodotti alimentari casarecci a Roma e tanti altri.

Non trascurabili e centrali sono le figure, ricordate e ben rappresentate con il loro  colorito soprannome, dei genitori e dei parenti: i patri, le matri, i frati e le sore, nonno meio, nonnemea, gli neputi, zà Lina, ‘Za ‘Rnesta Cacaccia, za Ppina che metteva a scallà la padella/ per cucinare gli ranunghi. Persino gli animali sono protagonisti delle storie narrate in versi come ad esempio gliò mulo dè Giulio nella poesia La Scivolarella, i porci, le capre le pecore de La fiera  de San Tomasso.                                                                                                                               L’abilità poetica delle due autrici è dimostrata anche nel rievocare e nel descrivere i   luoghi fisici del Paese, particolarmente cari agli abitanti di alcune zone caratteristiche come La Stella, Glio cavone, Glio ‘Ncangeglio, gli Gricigli, meta soprattutto estiva, quest’ultima, da raggiungere con l’automobile, con qualche difficoltà per le strade dissestate per le radici degli alberi. Il paese, animato dagli mammocci, dalle uttarelle, dalle commari, presenti nella piazzetella, nelle viuzze dove era possibile correre liberamente senza pericoli, dove magicamente Nu muriglio diventa, con la forza della fantasia infantile, un luogo pé facci glio mercato, dove Glio Palazzo che mannava l’acqua, diventa un protagonista che regola, ad un determinato orario della giornata, la vita dell’intera comunità.

In alcune poesie anche gli oggetti come glio concone di rame, glio concheteglio per prendere l’acqua alla fontana, glio soreglio per bere e dissetarsi, glio canistro, fanno parte del palcoscenico e dello sfondo poeticamente narrativo della comunità privernate. In altri componimenti vengono revocati i momenti gioiosi dei vari giochi comunitari (la tomboletta, la scivolarella, la campana – glio vicolo meio era fatto pè giocá) e anche gli eventi periodici come La fiera de San Tomasso, tradizione antica  durante la quale si respirava aria di festa soprattutto per gli mmammocci a cui venivano comprati (accattati) palloncini legati aglio bracciuccio stritto stritto co’ no corduccio oppure la Fiera nòstra dove si andava pe’ ine accatta/chello che non potivi trovà/ quando gli centri commerciali non ci stéveno. Personaggi, luoghi, oggetti, eventi, scene di vita e atmosfere danno un forte senso di appartenenza ad una comunità glio vicolo meio … Glio vicolo era tutto glio munno!

L’intera silloge, a due voci, offre suggestivi spaccati antropologici culturali che riguardano la vita comunitaria di una volta, di un tempo passato nostalgicamente rievocato con senso di lieve malinconia per il tempo trascorso forse in povertà e semplicità, ma  certamente vissuto con gioia e  con  spensieratezza, almeno per i più piccoli (per gli mammocci).                                                                                                                                        Gli episodi rievocati riguardano anche le nascite, i giochi di un tempo, i legami fraterni tra sorelle con le quali se ride i se piagne ogni tanto/perché ‘nzembra tenemo lo sango (Sòrma). Alcuni componimenti fanno riferimenti all’arte culinaria: i sughi, la cottura degli ranunghi, la ricetta per la falia che  A Piperno a stata ‘nventata, alla vita politica durante la campagna ‘lettorale quando, finito glio tempode ‘na fede bbia,  si trattava di votare liberamente.

Come pipernese d’oc sento di rivolgere un sincero grazie a Rosella e Alba perché con la loro opera poetica, proseguendo e arricchendo il patrimonio di valori e di tradizioni in comune, lasciatoci dagli indimenticabili poeti dialettali Carlo Volpe e Angelo Di Giorgio, Vittoria Macci, hanno il merito di conservare e valorizzare il calore, la bellezza, la musicalità  dell’espressività e del colore della nostra parlata locale, del nostro dialetto che ci permette di non perdere il contatto con le nostre radici culturali, il rapporto con le nostre origini e  con il nostro paese, perché come scriveva Cesare Pavese nel suo romanzo “La luna e i falò” «un paese ci vuole, non fosse per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti».

 

 

 


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