In ricordo di Albert Camus

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L’uomo non può fare a meno della bellezza, e la nostra epoca finge di volerlo ignorare. Essa non vede il bello perché s’irrigidisce per raggiungere l’assoluto e il dominio.  Albert Camus

Sessant’anni fa, nei primi giorni di gennaio del 1960, moriva per un incidente stradale Albert Camus. Aveva appena 46 anni l’indimenticabile scrittore, saggista e drammaturgo francese, di cui molti di noi si sono nutriti leggendo e studiando le sue opere letterarie e filosofiche. La morte lo sopraggiunse mentre stava scrivendo il romanzo Il primo uomo, rimasto incompiuto e pubblicato postumo nel 1993.

Orfano di padre e figlio di una donna di pulizie, Albert Camus era nato nel 1913 a Mondovì in Algeria. Riuscì a compiere buoni studi aiutandosi con lavori saltuari fino alla laurea, conseguita presso la Facoltà di Lettere dell’Università ad Algeri con una tesi su Platone e sant’Agostino.

Nel 1939, allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, tentò di arruolarsi, ma per le sue precarie condizioni di salute non fu accettato. Dopo il trasferimento a Parigi divenne membro della Resistenza a fianco di personalità importanti come André Gide, Jean Paul Sarte e François Mauriac e diresse, fino alla liberazione, un giornale clandestino. Dopo la fine della guerra Camus continuò la sua attività giornalistica e il suo impegno politico nella difesa di ogni attentato alla dignità e alla vita umana.

Albert Camus è stato uno dei più rappresentativi scrittori del secolo passato, un filosofo e narratore “esistenzialista”, un autorevole intellettuale francese politicamente impegnato per il quale la libertà di pensiero era più importante che qualunque ideologia e appartenenza politica. Autentico libertario, coerente nelle sue lotte contro tutto ciò che uccide, violenta, umilia e svilisce l’uomo, due sono state le idee (e non due utopie), che ha rilanciato di continuo nella sua breve esistenza: giustizia e libertà.

Ha scritto in giovane età (aveva appena 29 anni) il saggio Il mito di Sisifo, i romanzi Lo straniero (1942), La peste (1948), L’uomo in rivolta (1951, testo di riferimento dei movimenti studenteschi del ‘68, a partire da Berkeley), i drammi Caligula  (1944), Il malinteso (1946), Lo stato d’assedio (1948) e I giusti (1950). È stato uno scrittore geniale, impegnato ma mai sottomesso, un giornalista di alto livello, un drammaturgo  molto seguito e apprezzato per le sue piece teatrali.                                                                                                                                       I suoi libri sono scritti in uno spirito di domande perché discute, ma non insegna dall’alto di un sistema. Il Mersault  dello Straniero, gli eroi della Peste, la Martha del Malinteso e gli altri personaggi  ancora ci pongono delle domande, provocano con i loro enigmi, invitano alla discussione. Ecco perché, più di sessanta anni dopo la morte dell’autore, la sua opera non si è pietrificata ma mantiene la sua vitalità nel mondo di oggi.     Nel 1957 è stato insignito del Premo Nobel della Letteratura e nella motivazione del Premio si legge: «mette in luce i problemi posti ai giorni nostri alle coscienze umane. Ha cercato di parlare per i nati poveri che non hanno la parola».

Come filosofo è stato l’inventore romantico dell’assurdo, riuscì a prendere le distanze dal nichilismo estetico e assurdo, solidarietà, rivolta in nome della libertà sono  state le parole chiave del suo messaggio metafisico.                                                                                            Per ricordarlo con viva gratitudine, è opportuno non dimenticare il suo incisivo messaggio: «Dovessi scrivere io un trattato di morale, avrebbe cento pagine, novantanove delle quali assolutamente bianche. Sull’ultima poi scriverei: Conosco un solo dovere ed è quello di amare».

 

 

 

 

 

 

 


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