“Il traditore” di Marco Bellocchio oltre a essere una grande lezione di cinema è anche la retrospettiva e,chissà,la prospettiva tragica di “un paese senza”. Un paese che rischia di morire per non saper scegliere tra democrazia autentica e democrazia fittizia o ipotetica, tra buonismo-paternalismo-bigottismo e bene collettivo. Un film altamente civile, “politico” che,casualmente o per analogia, ha la cifra della tragedia greca -Cosa nostra come la reggia degli Atridi- dunque,possente e potente in cui il fato tragicamente (sicilianamente) inteso incombe minaccioso e spietato. Bellocchio ha la maestria di tracciare in una scarna,essenziale sintesi a priori i momenti più cruenti e efferati della vicenda. La strage di Capaci strazia il cuore dello spettatore per immediatezza e stringatezza, “scolpita” con rapidi, secchi colpi di scalpello senza dare il tempo di soffermarsi,quindi, lasciandoti unicamente l’assordante eco dell’assurdità dell’accaduto. Niente retorica, niente spettacolarità né gratuita descrizione o cronaca di camorre, mafie,magliane, canari, suburre, “miserabili” d’accatto etc. Una regia rigorosissima,serrata e autorevole, un ritmo sostenuto nonostante il cadenzato,pausato scorrere delle sequenze per circa tre ore. Una tecnica dello straniamento da fare invidia a Brecht (!) di cui si avvale per scavalcare il realismo della finzione cinematografica e la stessa cronaca in virtù di una fisicità teatrale che rende appieno il conflitto interiore della persona- personaggio Buscetta tra afflato umano e istinto criminale, amore e rimorso paterno, cinismo e solidarietà; la sua contraddittoria, complessa personalità. Di compiere una straordinaria introspezione psicoanalitica, uno studio del personaggio da entomologo mediante un’adesione simbiotica con il superlativo Francesco Favino,perfetto alter ego di Buscetta, attore magistrale,l’eguale di un Marlon Brando-Padrino. Da antologia la corrispondenza d’amorosi sensi amicali con il giudice Falcone trasfigurata da Bellocchio-Favino (un unicum) in un’intesa oltre l’umano, profondamente “spirituale”, assai commovente. Un esempio di grande, autentica prova d’autore e d’attore che non fa onore a una giuria strampalata e faziosa come quella di Cannes. Il messicano Iniarrito (presidente della giuria) avrebbe dovuto risolvere l’imbarazzo della scelta con un opportuno ex aequo (col film premiato) ) o almeno con un premio alla regia, anche a Favino davvero non secondo a Banderas,oserei dire con qualche punto in più rispetto a quello. E’ il caso di ricordare che, l’anno scorso (a Cannes), è stato premiato un attore non professionista (Conte?), quel “poveraccio” che ha beneficiato del merito di essere un “garronista” e un “savianista” (con la grottesca replica del David di Donatello)?! Altro che mafia, una vergogna. Peraltro,un festival internazionale ancorché guardare insistentemente all’Oriente nel difficile clima attuale, a mio avviso avrebbe dovuto guardare anche se non soprattutto all’Europa oltre che alla magistrale struttura stilistica,estetica, formale e sostanziale costruzione del film. Incredibilmente vere, suggestive le sequenze dei processi,impressionante l’ultima difesa dell’avvocato di Andreotti, chiara espressione di una giustizia complice e di parte; espressiva la scomposta reazione dei mafiosi in aula sapientemente dominata dal regista.Contributo non da poco la bellissima musica di Nicola Piovani, l’interferenza ricorrente di una famosa canzone spagnola, sigla finale del film cantata dal vero Buscetta; la citazione dell’immancabile Verdi (Va pensiero),sempre emozionante e calzante.Un film necessario e istruttivo che dovrebbe essere utilizzato nelle scuole, acquisito dai docenti come “testo” da sottoporre all’attenzione dei discenti,quindi, da studiare. Nota a margine: il film,a pochi giorni dall’uscita, è già in testa agli incassi. Alla faccia di quegli “stronzi” di Cannes! (gmaul)


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