La Scuola romana

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Lavorare per me significa vivere. Se non dovessi scolpire o dipingere, ma soprattutto scolpire, la vita non avrebbe nessun interesse per me.   Antonietta Raphael

         Alla fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta del secolo scorso nell’ambito artistico romano si manifestarono forme di arte che rifiutavano i grandi temi, la retorica e il linguaggio magniloquente dell’arte ufficiale con l’intenzione di ritornare alla pittura dal vero e all’espressione di sentimenti privati.

La Scuola romana conferì una singolare vitalità all’ambiente romano  e concorse a creare nuovi orizzonti di ricerca fino a quel momento definiti dall’arte ufficiale. Il gruppo eterogeno degli artisti, che facevano parte di questo movimento, contestava l’ufficialità dell’arte del “Novecento” imperante e manifestava dissenso con opere più libere nel contenuto che si producevano in Europa. In tutti i principali esponenti del gruppo era riconoscibile la ricerca di un linguaggio più libero, che recuperava, attraverso il colore e l’intensità espressiva, le più importanti e significative esperienze europee nel segno del rifiuto del «ritorno all’ordine» e del tradizionalismo propri dell’arte ufficiale dell’epoca.

Gli artisti Scipione, Mario Mafai e Antonietta Raphael, tra il 1928 e il 1931, formarono un sodalizio esponendo insieme in mostre collettive alla Galleria Bragaglia e a Palazzo Doria. Questo gruppo, a cui, da parte del critico d’arte Roberto Longhi, fu dato il nome di Scuola di via Cavour, dalla sede del loro studio, costituì il nucleo iniziale della Scuola romana  (così definita dal critico George Waldemar, in occasione di una mostra tenuta a Parigi nel 1933) più numerosa di artisti che operarono a Roma.

 Nella rivista La Fiera letteraria (aprile 1929), lo storico dell’arte Roberto Longhi intuì, per primo, il significato e la rilevanza della  pittura degli artisti che aderirono alla Scuola romana, collocandoli «su quel confine di quella zona oscura e sconvolta, dove un impressionismo decrepito si muta  in allucinazione espressionistica, in cabala e magia». In effetti il collegamento tra la Scuola e l’espressionismo europeo si avvertiva molto bene  nella pittura di Scipione, di Mario Mafai e di altri artisti.

Scipione, pseudonimo di Gino Bonichi (Macerata 1904 – Arco, Trento, 1933), la cui pittura fu caratterizzata da uno stile personalissimo e da un mondo poetico, lasciò un’impronta significativa, malgrado la sua brevissima esperienza artistica interrotta dalla malattia (tisi) che lo portò alla morte precoce.

La produzione artistica di Scipione segnò una svolta decisiva nella pittura italiana moderna, con l’improvvisa scoperta di un espressionismo visionario, carico di umori romantici e disperati, che ebbe un forte significato di rottura nei confronti della cultura italiana del tempo.

Sensibile allo stimolo puramente culturale e alla suggestione letteraria, Scipione giunse a una pittura tendenzialmente espressionistica, ma del tutto priva delle istanze di protesta, ribellione o denuncia, come pure della violenza del segno e del colore propri di quel movimento. La sua visione era piuttosto espressione di un mondo di simboli e di evocazioni, anche storiche, pervaso da un senso angoscioso di decadimento e di morte e filtrato attraverso una dominante cromatica rosso-bruna, che ne accentuava il carattere magico e astraente.

La cortigiana romana (1930, Milano), Cardinal decano (1930), Piazza Navona e Gli uomini che si voltano (1930 dipinti a Roma ed esposti nella Galleria d’Arte Moderna) sono pitture di grande intensità espressiva che hanno come sottofondo la Roma cattolica dei papi e della controriforma, corrotta e in disfacimento, e il funereo e tetro fasto delle architetture barocche.

Mario Mafai (Roma 1902-1965), fin da quando era studente all’Accademia delle Belle Arti, mostrò un profondo interesse per la realtà circostante recandosi spesso a dipingere vedute di Roma e dei dintorni, dal vero e all’aperto, insieme all’amico Scipione. Il giovane artista romano era convinto, come scrisse nel 1935, che «Davanti al vero spesso si prova timore e qualche volta esso ci porta a risultati banali, ma non bisogna scantonare e per questo cercare risultati più facili e di maggiore effetto».

Il legame con Antonietta Raphael, che diventò poi sua moglie, si rivelò culturalmente molto importante per la sua pittura, poiché la formazione europea di Antonietta, che a Parigi aveva frequentato Chagall e Soutine, fu determinante per Mario  Mafai nello sviluppo della ricerca pittorica che opponeva al linguaggio arcaico e monumentale di “Novecento”, una lettura espressionista della realtà e della vita quotidiana.

Successivamente il linguaggio dell’artista romano divenne più astratto e metafisico e, in piena atmosfera di cultura fascista, Mafai si mostrò particolarmente interessato a un soggetto che ritornava frequentemente nella produzione di quegli anni: Demolizioni dei borghi (dipinti eseguiti tra il 1936 e il 1939) che rappresentavano l’operazione di smantellamento degli antichi borghi di Roma, per ordine di Mussolini.

Le forme sventrate degli edifici, ma soprattutto l’utilizzo del colore caldo, palpitante e tonale, usato in chiave espressionistica, definivano l’atmosfera dell’opera artistica, manifestando le idee e i sentimenti dell’artista nei confronti del regime, la cui netta e inequivocabile opposizione si affermò nelle opere successive in maniera ancora più evidente e significativa.

Nel dopoguerra Mafai, oltre a dipingere nature morte, attraversò un breve e significativo periodo neorealista (Osteria di via Flaminia, 1949, Roma); fin dalla fine degli anni Cinquanta, risentì delle suggestioni dell’informale e della pittura materica (Paesaggio panorama con cielo blu).

Altri artisti che parteciparono al clima della stagione dell’arte della Scuola Romana, particolarmente ricca di esiti, furono Marino Mazzacurati,  Afro, Pericle Fazzini, Roberto Melli. Fausto Pirandello, Tito Scialoja, Giovanni Stradone, Alberto Zivieri, Mario Schifano e Guttuso.

La loro poetica fu definita e sostenuta da critici d’arte e letterati tra cui Waldemar George, Roberto Longhi, Vincenzo Cardarelli, Alberto Moravia, Guido Piovene, Leonardo Sinisgalli e Giuseppe Ungaretti.

 

 


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